Ho incontrato Dio sul treno delle 7,10.
Una trentina d’anni fa i nostri rapporti erano stati ben più stretti.
Anche se io allora ero poco più che un ragazzo. Dio era rimasto immediatamente conquistato da me. “Tu
– mi diceva – non sei solo più in gamba di me, ma anche più profondo. E con un intuito migliore…”.
Poi, l’equilibrio di potere fra noi due cominciò a invertirsi.
Trascorrevamo molto tempo insieme, passeggiando e meditando sulla logica. Ma io non mi limitavo più a
correggere le sue affermazioni, anzi, mi abbandonavo a un’ira terribile nei suoi confronti ogni volta che lui
non riusciva a capire qualcosa. Il mio modo di rivolgermi a lui divenne talmente violento e brutale
che i nostri rapporti si interruppero bruscamente.
Non ci rivolgemmo più la parola.
Finché non ci siamo ritrovati su quello stesso treno. L’incontro fortuito ha fatto sì che si riallacciasse subito fra noi una specie d’amicizia.
L’ampiezza dei suoi interessi era impressionante.
Affermava di poter dimostrare l’esistenza di un mondo esterno protendendo le mani in fuori e dicendo: “Qui c’è una mano”, e “Qui ce n’è un’altra”. Io gli sorridevo con garbo e pensavo: “Ma tu sei Dio, cazzo, tu sei Dio…”.
“Hai mai letto il libro che ci rende tutti così saggi e buoni, Principia ethica?”, mi ha chiesto a bruciapelo,
quando ormai eravamo in viaggio da una buona mezzora.
Non gli ho risposto subito. Anche questa volta ho annuito sorridendo. Mi dispiaceva dovergli dire che il
libro di cui stava parlando era stato pubblicato più di cento anni fa. Per lui era come se fosse uscito ieri o ieri l’altro. Ma per me si tratta di un’opera un po’ datata e superata.
“Vedi – mi ha spiegato – in etica il bene è sostanzialmente indefinibile, un po’ come il colore giallo. Il bene è il bene, questo è tutto”.
Ho cercato di sorprenderlo: “E chi cerca di esprimere il bene in altri modi?”.
“È un errore…”.
“Un errore?”.
“Sì, un errore a cui io attribuisco l’etichetta di inganno naturalistico”.
“È lo sbaglio che commette chi cerca di far derivare un dovrebbe da un è, ossia di passare dal fatto al
valore…”.
“Esatto. Lo sbaglio individuato da David Hume…”.
Parlava di Hume con la stessa familiarità con cui avrebbe potuto parlare di suo cugino. Evitai di ricordargli che Hume era vissuto nel XVIII secolo.
Ma lui già continuava: “Lo vogliamo capire che non si può procedere logicamente dalla descrizione di uno
stato di fatto (In Burundi c’è gente che muore di fame) a un giudizio morale (Dovremmo mandare del
cibo): l’uno non è conseguenza logica dell’altra”.
Tirava acqua al suo mulino. Ma io sono stato al gioco: “Allora – l’ho provocato – come sappiamo qual
è la cosa giusta da fare?”.
“Ci arriviamo grazie all’intuito: l’intuito è l’occhio morale della mente”. Si stava divertendo.
Ho continuato il suo ragionamento: “Percepiamo il bene esattamente come vediamo il colore giallo…”.
Ha esultato: “Bravo! Sostituendosi ai nostri genitori, ai nostri insegnanti, allo Stato o alla Bibbia, la nostra
coscienza diviene la nostra autorità morale”.
Avrei voluto dirgli che la Bibbia era lui che l’aveva scritta. E invece ho finto di recepire il suo messaggio
come una liberazione, chessò, una luce verde alla sperimentazione e alla libera sessualità. Perfino alla
promiscuità… Stavo per parlargliene. Ma ho visto che non mi seguiva più. Si era alzato. Mi c’è voluto
qualche secondo per capire che eravamo arrivati. Il treno s’era fermato.
Abbiamo preso i nostri bagagli, siamo scesi e, scambiando qualche battuta sul tempo, ci siamo
avviati sul marciapiede accanto ai binari. Ho visto Gustavo, il suo autista, che ci veniva incontro. Un leggero elegante inchino quando ci ha raggiunti, poi ha tolto il borsone dalle mani del suo padrone. Dio mi ha stretto la mano con calore.
“Ti raccomando – mi ha detto – chiamami qualche volta. E non fare passare tanto tempo un’altra volta”.
Poi, mi ha voltato le spalle ed è scomparso nella folla.
(Questo racconto si ispira a “La lite di Cambridge” di David Edmonds e John Eidinow)
©Davide Marchetta