FICHI
Dieci anni. Chissà come mai i decenni cominciano ad essere veloci come vento di tempesta. Chissà come mai sei convinta di essere stata lì solo ieri e invece sono passati anni. Ti senti giovane, vitale, poi ti guardi le mani e non le riconosci. Sono di una vecchia, no, non sono le tue.
Dieci anni fa, dunque. Stesso mare. Spiagge no, che la Croazia non è certo famosa per le spiagge. Ma le rocce dell’isola e la barca e il mare, quelli sono identici.
La cantilena che fa il mare sui sassi piccoli e triangolari ti riporta proprio a quella volta, dieci anni fa, in cui lui risalì semi svenuto dalla barca, dall’immersione perfetta in cui tutto non fu perfetto.
Paura: la folle corsa in macchina, l’ospedale di Zara e poi l’ambulanza fino a Spalato, acceleratore pigiato, da sola, cercando di non perdere di vista quel pazzo che correva con i lampeggianti e la sirena, autostrada assolata e deserta, tu vestita di niente, in uno zainetto la carta di credito.
Di quei centocinquanta chilometri restano solo luce accecante e mani strette sul volante.
L’entrata all’ospedale militare di Spalato è da film di spionaggio: l’ambulanza entra dall’uscita, i militari a fucili spianati aprono velocemente la sbarra e io mi infilo dietro l’ambulanza, tra lo stupore generale.
Veniamo accolti da un uomo, alto, abbronzato, capelli brizzolati e occhi verdi. In perfetto italiano mi dice di sedermi che lui arriverà subito.
L’uomo che dovrebbe essere al mio fianco, invece, sembra sempre più magro, pallido sotto il lenzuolo della lettiga. Ma sorride.
Dieci anni fa, l’aria calda, forte, secca, entrava da finestre senza vetri che illuminavano dall’alto la grande sala grigia.
Le uniche sedie erano piccole, scomode, tanto simili a quelle delle cucine degli anni Sessanta. Un po’ sbeccate ai lati del sedile, di colore tra il grigio e il verdino, non davano agio al lasciarsi andare, ma solo a quelle sedute in punta: appoggiavo solo il sedere, i muscoli delle gambe rigidi, i tendini delle caviglie pronti a dare la spinta: “Tornerà, quell’uomo, a dirmi qualcosa, vero?”.
Tornò.
E fu notte importante. Per ore mi raccontò della sua vita e mi chiese della mia. Per ore mi tenne per mano e si prese tutta la mia ansia e la impacchettò.
Ci fu un momento, al buio, in cui mi chiese se avessi fame. Sorridendo, mi portò fuori. Si arrampicò su un albero di fichi e ne scese con il cappello pieno. Sodi, neri, maturi. Almeno così disse. Io, in tanti anni di vita, avevo sempre rifiutato di assaggiarli, con quei semi molli.
Seduti per terra, sotto l’albero, poche luci filtravano dall’interno a illuminare le mani che cercavano di aprire, pulire, portare alla bocca.
Riuscii a mangiare con l’avidità dell’ansia, della fame di buono, della voglia di sapere che tutto era a posto: dolcissimi umori, che dallo stomaco arrivarono al cuore e allora, solo allora, si sciolse la tensione. Scorrevano lacrime mentre la saliva aiutava a godere sapori più dolci.
Rientrammo, e dietro l’oblò della camera iperbarica, anche l’uomo della mia vita aveva cambiato colore e a gesti mi faceva capire di avere fame.
Sorridere, piangere, godere del sapore dei frutti.
Oggi, dieci anni dopo, l’aria è calda e secca, i colori sono uguali, il nostro biancore di pelle a testimoniare anni difficili. Di fronte al porto, un albero di fichi, maturi, belli, illuminati dal sole.
Non lo so se si fa, non lo so se mi urleranno dietro; non resisto: lo colgo, lo mangio, sorrido, sto bene.
Lui mi guarda, annuisce, sorride ai due del passato, sorride ai due del futuro.
© Antonella Zanca, 2017