ROBI SECCHI
Lei diceva a tutti che era perché era stata operata d’ulcera.
Nessuno se la poteva dimenticare, quell’operazione. Ospedale di provincia, nel paese dei suoi avi, anzi, il suo, visto che era nata lì anche lei, benché fosse arrivata a Milano a vent’anni. Ma in quella provincia il grande professore arrivava con cadenza settimanale e si prodigava a operare tutti quei pazienti suoi, proprio suoi, che vedeva privatamente a casa e poi operava nell’ospedale (Ma venga in provincia, mi raccomando, che il trattamento è più umano).
Erano anni in cui le tecniche non erano poi così all’avanguardia.
Erano anni in cui gli interventi erano cruenti, la degenza lunga e difficile, il dolore presente e le caposala quasi ti facevano sentire in colpa se chiedevi un calmante, uno qualsiasi.
Così lei stava male, dopo l’operazione, ma con la dignità della signora, stava in silenzio, al massimo chiudeva gli occhi, poi si raggomitolava quel tanto che flebo e cannette di spurgo le permettevano e noi, che affrontavamo per la prima volta ospedali e dolori e sangue e operazioni, non capivamo, ma sapevamo che si doveva stare lì.
I turni erano difficili da gestire ma le cugine zitelle erano in prima fila, con sguardi di finta comprensione per noi che dovevamo scappare a Milano.
«Non preoccupatevi, restiamo qui noi, facciamo una notte per uno.»
Regole non scritte, da rispettare, perché regole familiari e noi ancora troppo giovani per rivoluzionarle.
Insomma, lei viveva col mal di stomaco, da quella volta lì, operata d’ulcera.
E poiché il grande professore luminare era certo di avere la ricetta giusta, le disse di mangiare, quando sentiva il dolore, qualche grissino e dei cracker.
Lei li chiamava “robi secchi”, e ne andava matta. Farla felice, man mano che invecchiava, significava portarle piccoli grissini e tutta una serie di leccornie salate, asciutte e insipide, che lei rosicchiava con piacere.
Così, quando venne a vivere con noi, più vicina ai cent’anni che ai novanta, imparai a farli in casa, quei robi secchiche le piacevano tanto. Acqua, farina, un pizzico di bicarbonato, sale e erbe, la salvia che amava, ma anche la buccia di limone o l’origano e persino lo zafferano. Impastavo e mi divertivo, preparavo grissini tirati a mano, irregolari, brutti; oppure piadine; o ancora dei quadretti di pasta sottilissima che passavo in forno per pochi minuti.
Lei sorrideva, solo due denti dell’arcata inferiore a dirmi tutta la sua gioia, metteva in bocca un robino secco, lo ciucciava a occhi chiusi, e sospirava.
Felice lei e noi.
© Antonella Zanca, 2018
Antonella Zanca è una delle autrici dell’antologia Di mari e tempeste, edita da Edizioni del Gattaccio, collana Sdiario, in uscita nel mese di settembre. Potete prenotarla sin d’ora presso il sito della casa editrice.