L’UOMO DEI SORRISI
L’uomo dietro il bancone spariva tra la sedia imbottita e lo schermo del computer.
Di lui si vedevano solo parti arrotondate: un viso ampio, a luna piena, le guance arrossate, un sorriso lieve, due occhi a palla. Le braccia nude spuntavano da una maglietta troppo stretta che gli fasciava la pancia, globale benessere.
Adagiato dietro la sua scrivania minimalista, raccoglieva carte e chiacchiere e regalava appuntamenti.
Sulla targhetta un po’ storta, solo il nome: Enrico S.
“Eccone un’altra. Numero 12.01 B6. Vorrei conoscerlo quel matto che ha inventato il sistema dei numeri per gli sportelli. Non poteva fare una cosa normale, un numero una persona e via? No, sigle, punto, ancora sigle, che quelle povere vecchiette non capiscono mai quand’è il loro turno e siamo tutti qui a spingerle da uno sportello all’altro. E guarda questa. O non si è pettinata, stamattina, o non aveva lo specchio, oppure si sarà dimenticata che oltre ai vestiti ci sono i capelli. Sembra la zia Ninì. Lei andava sempre in giro coi capelli per aria e mia nonna le urlava dietro: «Te me sembret la Pea! Petenes!» Ho fatto tutta l’infanzia a immaginarmi una strega nascosta per casa pronta a urlare proprio a me, scuotendo i capelli, tutta la sua rabbia. Che a guardarla bene, questa vecchietta, scopri che anche la maglietta ha un po’ di buchi. Li avrà visti? Ci sarà qualcuno che le controlla i vestiti nell’armadio? Ci sarà qualcuno che annuserà la sua pelle? Io gliel’ho detto, alla mia Mara: «Non abbiamo figli e saremo da soli, così ci tiriamo in casa qualcuno che si prenderà cura di noi, vedrai che bello». Lei fa le smorfie, non ci vuol pensare, ma io sì, abbiamo sessant’anni, ormai. Ah, questa vecchina qui ne ha ottantanove. Bella sveglia e sorridente. Ci vedrà poco ma senti come parla bene e come è attenta a quello che le dico. Chissà se si accorge che sono contento di stare qui e incontrarli, tutti i giorni. Sto qui e loro raccontano; così scappo via. Dai loro nipotini, dai loro gatti, nei loro sogni e nei loro ricordi. Con una sono stato in Marocco, che non la finiva più di raccontarmi delle città imperiali. Un altro mi fece fare la traversata delle Bocche di Bonifacio in barca a vela e mi ritrovai sbattuto tra le onde, sentivo sbuffi e profumi. Questa mi sta parlando del suo lavoro, tanti anni fa. Faceva l’infermiera, dice. Non avrei mai potuto farlo, le dico, si soffre troppo. Mi guarda e capisce. Glielo leggo negli occhi, che capisce. Io voglio sentire le loro storie e buttarle in ridere, voglio trattarli bene e vedere i loro occhi attraversati da un guizzo. Ce l’avevano, quel guizzo, tanti anni fa. Oggi tocca a me, regalarglielo. «Ma signora bella, mi dica, quei capelli dritti in piedi: è perché mi ha visto e si è spaventata?» Sentila, sentila come ride. Mara, stasera cercherò di farti ridere così, non c’è niente di più bello, sai?”
©Antonella Zanca, 2018
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