L’UOMO DEI NUMERI
Il corridoio stretto porta a una grande sala.
Un uomo è fermo a fianco di un distributore di numeri per regolamentare le code.
La divisa grigio-verde è inamidata, un grande trapezio che evidenza la pancia. Lui ha la pelle bianca, le unghie ben curate, i capelli radi, gli zoccoli di gomma ed è lì, quasi immobile, ad accogliere chi arriva.
Chiede, ascolta, annuisce, distribuisce numeri e, a tutti, un sorriso che arriva e scompare, improvviso.
La voce è un sussurro, si alza solo quando compare una signora molto anziana, col bastone.
Ripete, sempre: “Verrà chiamato il suo numero, dall’accettazione” Oppure: “Verrà chiamato col suo nome”.
Tra una persona e l’altra assume la postura di un guardiano di museo, immobile, le gambe leggermente divaricate, le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo diritto e vacuo.
«Sono le tredici e trentacinque. Ancora due ore esatte e poi via di qui.
Oggi sembra anche più difficile. Questa routine si sta risucchiando tutte le mie energie. Tutti i giorni, dalle otto e trentacinque alle quindici e trentacinque in piedi a rispondere alle domande, sempre le stesse.
Sì, siete nel posto giusto. Sì, come vedete c’è scritto Pronto Soccorso Dermatologico e qui ci sono i dermatologi che potranno visitarvi.
No, non sono in grado di dirvi se è grave, se è infettivo, se il dolore sparirà, se il prurito sparirà, e neppure come fare a sopportarlo.
I più difficili sono i bambini: genitori spaventati, bambini urlanti, pustole e sfoghi di ogni colore vengono esibiti come medaglie, lasciapassare in una guerra in cui vince solo chi ha il numero più basso.
Io sono l’uomo dei numeri. Devo darvelo e farvi sedere là, nella sala grande.
Non posso e non voglio ascoltare le vostre storie e immedesimarmi nei vostri drammi. Me lo ricordo come stavo male i primi tempi, appena trasferito dall’ufficio acquisti quando portavo a casa tutto, quando sul tram ripensavo ai problemi e la sera ripensavo al signor G. e poi alla signora Z. e anche alla C. “Saranno guariti?” mi chiedevo?
La notte sognavo eruzioni cutanee sgargianti che si ingrandivano e non si fermavano, una sorta di lava purulenta che mi assaliva: mi svegliavo sudato, la mano di Ester a tranquillizzarmi. Furono i suoi consigli a non farmi ammattire.
«Pensa alle tue navi, mi diceva.»
Cominciai a concentrarmi sui modellini di navi che costruisco da anni. La cura nella scelta del legno, nel ritagliare dei particolari, nell’assemblare con la colla giusta ogni piccolo dettaglio, mi salvò la vita.
Ogni giorno scelgo con cura un modello tra quelli che ho costruito, e lo fisso nella mente.
Lo faccio sul tram, il quattordici. Ho sedici fermate per pensare. A volte mi distraggo: le ragazzine, in gruppo, che ridacchiano e parlano fitto fitto mi lasciano imbambolato. Mi scuoto, penso a Ester e torno alle mie navi.
Ricordo ancora il primo motoscafo in scatola di montaggio: prendevo ogni pezzo e lo accarezzavo. Sognavo mari e laghi e inventavo storie di ricchi finanzieri, di belle signore sorridenti e perfette. Poi arrivarono i velieri, le navi da guerra, e infine i disegni, le mie invenzioni. I miei sogni erano cambiati, allungavo una prua, cercavo il legno giusto per il pagliolato. Star bene pensando al legno di balsa, dimenticando il male alle gambe dopo un giorno intero là, dritto in piedi.
Ancora due anni, tre mesi e diciotto giorni. Poi, solo il tempo per Ester e le mie barche.
«Sa signora, sono ferratissimo sui motoscafi Riva, potrei parlarne per ore. Ma no, non so se la sua sia psoriasi e no, non posso dirle se sia contagiosa. Ecco il suo numero, è il quarantotto.»
© Antonella Zanca, 2018
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.