Le dita sono della mano.
I diti sono del piede.
Gente delle campagne marchigiane
Mio fratello vuole vedere Bè. Lo cerca la mattina, appena esce di casa, scalzo, con le gambe storte e lo straccio arrotolato al culo. Io sono già fuori da un pezzo.
Quando mi trova mi punta contro il dito e poi dice il suo nome, Bè.
Lo ripete finché non lo calcolo e lo prendo per mano.
Allora giriamo intorno casa, senza scarpe tutti e due. La breccia rimane tra i diti dei piedi. Qualche volta c’è una pietra più grossa che gli impunta i calcagni e allora stride, però non piange. Appresso al pozzo ce n’è una liscia e piatta, ci sale sopra manco fosse il compito di ogni giorno. Dopo arriviamo da Bè.
Lui se ne sta tranquillo a mangiare l’erba, con la catena che gli parte dal collo e poi fa una poccia che tintinna, a pelo tra terra e pietra, a rintocco sul paletto di ferraccio. Alza la testa e ci guarda, con gli sfilacci verdi dalle parti. Smette di masticare e ha gli occhi neri e grandi.
«Bè!» urla mio fratello, e lo indica con il dito, come prima aveva puntato me.
Questo non si muove, rimane fermo. Dopo un po’ torna a masticare. Qualche volta risponde.
«Nun cel portà a tu’ fradello dall’agnello, che tra ‘n po’ è ora de mazzallo. Se fezziona, dopo piagne. Ancora è piccolo, nun po’ capì»
Nonno versa dal fiasco un bicchiere pieno, giallo come il piscio di Bè quando la fa per terra. Ne dà sempre un goccio pure a me, però io ci metto l’acqua e lo bevo prima di mangiare, perché mi storce la bocca. Il sugo poi copre il sapore. A pranzo e a cena.
Una notte sento Bè chiamarsi per nome. In continuazione. Non smette mai. Fino a quando babbo non si alza e va di sotto. Io intanto sto sul letto, in un bagno di sudore, con gli occhi aperti. In bocca s’è rifatto il sapore del vino, mi si storce tutto il sonno. Provo a dormire però babbo non torna, lo sento bestemmiare da sotto. Allora mi alzo e lo raggiungo. Mi fermo un attimo sulla pietra liscia, il freddo mi sbrega la schiena.
«Oh, sei te? J’avede dato da magna’ qualco’ de strano, oggi? Sta male ‘n’altra volta».
Faccio di no con la testa. Poi sento la puzza. Bè sta male di nuovo. È pieno di merda. Le zampe dietro sono tutte sporche. La catena a poccia non tintinna perché sta piegato e si trascina per terra.
«Doma’ je do ‘na sciacquada e po’ ‘l porto giù ‘l mercado. I macellari co’ du
soldi me ‘l pia, noialtri non el magnamo siguro, chissà che malacci c’ha. Manco ce ‘l volevo mette chi diedro. Le idee de nonnedo, quesse. Dai, ‘ndamo a dormì» e poi rifà il giro. La porta davanti casa non la chiude. Devo rientrare io. E poi, tanto, chi c’è qua?
Io e Bè. Ci siamo noi. In silenzio.
Lui smette di chiamarsi, sta zitto.
Però gli occhi grandi, enormi, neri, infiniti e liquidi, specchiano questo cielo pieno di stelle che ci soffia contro il vento e ci fa gelare le schiene bagnate di sudore e di merda. Sento un sacco di occhi che mi guardano da dentro i suoi.
Magari c’ha solo voglia di stare insieme a qualcuno che gli stia fuori dalla testa, per questo piange.
Mi avvicino, però non lo tocco. Non ce la faccio.
«Non ce devi ave’ paura…» gli dico, e poi scoppio a piangere come non facevo da quando ero piccolo piccolo e avevo anche io uno straccio intorno al culo.
Non strido. Piango.
Quando la mattina mio fratello esce di casa con le gambe storte e dice Bè, lo prendo e facciamo il giro. La breccia ci rimane tra i diti dei piedi, la scaccoliamo sopra la pietra piatta, fermi verso chi non c’è più. La catena parte dal palo e si perde tra l’erba.
«Bè…» dice mio fratello con la voce poco convinta.
«È andato via, qui non c’era più l’erba che je piaceva…»
Restiamo per un po’ in silenzio, tutti e due, a guardare un ricordo.
Poi torniamo davanti casa, tenendoci per mano.
Ce la stringiamo più forte.
Qualche volta pistiamo in uno sbrecco.
Allora stridiamo.
Però non piangiamo.