Fra Tuck e Ponto (Max e Nina)

Nina si trovava catapultata nelle incombenze della vita quotidiana, senza la compagnia e il supporto di Max che aveva cambiato lavoro e usciva ogni mattina per andare in ufficio. Lei lo immaginava buio
e tetro, col ronzio di vecchi tubi al neon con le ragnatele penzolanti, annerite dalla polvere, sopra cubicoli angusti, un film anni ’70 con un giornalista d’assalto che tenta di far colpo sul caporedattore scorbutico, bottiglia di alcolico nel cassetto per sopravvivere alla giornata, il capo che manda tutti a fare in culo con frasi lunghissime e punteggiatura azzerata.
Niente più chiacchierate tra un capitolo e un altro, nessuno scontro sugli ultimi racconti scritti, i refusi, i riferimenti troppo ostici per un pubblico generalista, ma che mi importa di quello che capisce il lettore, va fatto così e basta. Fine delle domande su cosa ci fosse per pranzo che tanto poi lei avrebbe cambiato idea altre cento volte.
Adesso Max sapeva dalle 7:00 cosa avrebbe trovato nel suo panino e Nina consumava ogni giorno le stesse pietanze, immaginandosi una scrittrice squattrinata che mangia sola, nella sua topaia parigina, un
sottotetto al quinto piano, senza ascensore, infiltrazioni d’acqua dal soffitto malconcio, un tavolino tondo vicino alla finestra come unico arredo, un panorama di tetti e comignoli. La fiera dello stereotipo.
Quando c’era Max era bello anche fare la fila alla posta per spedire un pacco. Registravano volti, situazioni e intercalari che poi rielaboravano, se li raccontavano a vicenda e più passavano gli anni, più le parole e gli esempi attingevano alla stessa miniera di esperienze, convergevano, erano a tratti sovrapponibili. Adesso lui tornava e non aveva molto da raccontare, da quel mondo esotico che era il suo ufficio, non più un romanzo popolare ma un manuale tecnico inaccessibile a chiunque non fosse del mestiere. Lei si chiudeva mentalmente nel suo sottotetto parigino, si immalinconiva.
Quella mattina aveva il compito di ritirare un modulo scolastico della nipotina per l’iscrizione a una gita, incarico che le era stato affidato per la vicinanza del plesso scolastico a casa sua, quella reale, non quella parigina.
Faceva molto caldo perché i condizionatori erano sregolate e minacciose bocche dell’inferno, entravi a febbraio col cappotto e venivi catapultato direttamente a Copacabana, gli addetti alla segreteria in abiti estivi ti offrivano un Margarita, studenti di passaggio ti infilavano al collo corone di fiori e ti davano il
benvenuto da parte del comandante Stubing. Un leggero giramento di testa, sarà stato il rollio della nave da crociera, non era abituata.
Scusi, mozzo… no, volevo dire, posso chiedere a lei il modulo per la gita? Un allegro Braccio di Ferro a mezze maniche prese l’ordinazione. In realtà poteva sembrare più un simpatico, giovane Fra Tuck dal viso rubicondo, le righe ingrassano amico, le sconsiglierei. Il Rotondetto sparì in un antro segreto, laddove si
decidono i tempi di rilascio dei vari documenti e solo se sei un bravo genitore qualcuno si affaccerà e ti rivelerà la Buona Novella in tempi ragionevoli. Era abituata a quelle attese, solitamente restava in
piedi, parlottava in codice con Max, imbastiva storie insieme a lui e poi le rielaborava nei suoi racconti, ma quel giorno era sola.
Il gusto di seguire quelle languide conversazioni tra segretari e collaboratori scolastici, il pigro andirivieni di genitori che recuperavano i figli in uscita anticipata, il mesto atteggiamento degli studenti che erano stati convocati dal dirigente per una ramanzina e ne uscivano prosciugati, testa pesante e schiena ingobbita, tutto questo ben di dio d’ispirazioni e tematiche per racconti non le suscitavano emozione. Nina lavorava svogliata ai suoi canovacci mentali, non era più lei da quando frequentava i sobborghi parigini.
Entrò una signora e urlò una frase imbrogliata come un gomitolo caduto fra le zampe di un gatto. Fra Tuck si mise subito in azione e cercò di sbrogliare la matassa «non ho capito, vuole un giglio?», dalla guardiola si affacciò una donna esile, dall’aspetto corrucciato come chi soffre di mal di testa perenne e strascicò un «un tiglio! Vuole una tisana, fa bene ai nervi.»
La donna urlò nuovamente la frase.
Fra Tuck le si avvicinò come per poterle leggere le labbra e le urlò a sua volta con una lieve venatura campana «signo’ volete ripetere? Non si capisce niente. Cosa volete?»
Stessa frase, stessi decibel.
Fra Tuck scompigliato dal frastuono si ricompose e assunse un’aria meditativa, un braccio sullo stomaco e l’altro appoggiato sotto il doppio mento, «volete vostro figlio?», quella annuì e ripeté una parte della frase, probabilmente nome e classe.
L’impiegato si convinse di aver capito e telefonò con un cellulare al collaboratore scolastico per chiedergli di far scendere lo studente.
«Vai in I A per cortesia, fammi scendere Ponto Claudio, mi pare, o Claudia. No, non sono sicuro, questa è difficile a capi’», dall’altra parte l’addetto protestava per la annosità dell’incombenza, mentre il rotondetto insisteva «ma scusa, tu vai in I A e dici “Ponto, chi è?”»
Nina rimpianse amaramente che la signora non fosse sposata col signor Brondi, «e lo so ma questa è difficile a capi’…»
Parlava con un tono irritato e stanco, come un bimbo che piagnucola perché ha sonno ma non riesce ad addormentarsi, sentiva il peso di non esser compreso. Evidentemente l’interlocutore al telefono non mollava, così Fra Tuck tornò dalla signora e le urlò letteralmente addosso, evidentemente convinto che
ciò rendesse più facile la comunicazione, «scusate ma è Caudia con la a o Claudio con la o? Sicuro? Va bene.»
Si allontanò nuovamente dalla donna con fare cospiratorio, per non farsi udire e richiamò il collaboratore «è maschio!», sembrava un Gender Reveal Party, Nina guardava il soffitto attendendosi la caduta dei petali blu e provava una nostalgia straziante per Max che avrebbe apprezzato ogni particolare di quella situazione.
L’impiegato ritenne chiusa la questione Ponto e tornò a interessarsi a Nina, le fece un cenno per indicarle che la sua pratica era ancora attiva e per aumentare la suspense tornò nella stanzetta della Stasi con aria d’importanza, solo lui aveva accesso ai sacri luoghi dove tutto accade. Ne uscì un minuto dopo assicurando che il documento era in elaborazione e ci sarebbe voluto ancora un po’. La signora Ponto era anche lei in attesa, Fra Tuck si avvicinò a un altro impiegato e gli raccontò di Claudio e della sua mamma urlatrice, allargò le braccia con gesto plateale e ripeté il suo cavallo di battaglia “ma questa è difficile a capi’”. L’altro allungò il collo, vide la signora e gli rispose «ah la signora, ma quella è sordomuta!»
«Ma veramente? E il figlio?»
«No, il figlio non lo è.»
Nina provò una fitta al cuore al pensiero di come Max avrebbe potuto commentare l’idea che se una persona è sordomuta, pure i figli dovrebbero esserlo, per diritto dinastico. Prese il telefono e cominciò ad appuntarsi qualcosa, scrisse nomi e riferimenti mentali, poi una frase “questa è difficile a capi’, accento campano, non dà del voi in realtà, ma dovrebbe”. Mezz’ora dopo uscì dal plesso scolastico con una fotocopia, evidentemente prodotta dalle abili mani di pazienti amanuensi, costata un’ora di attesa, prese il cellulare e inviò un messaggio a Max: “appena sei in pausa chiamami, devo raccontarti una cosa prima di dimenticare i dettagli”.
Il telefono squillò.

©Ale Ortica

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