Amita aveva dodici anni e come tutte le bambine della sua età andava a scuola. Prendeva il pulmino da quando aveva sei anni e bisogna ammettere che era una gioia per l’autista ascoltare le sue chiacchiere per tutto il tragitto, le era affezionato, la trattava come una nipotina.
Silvestro aveva sessantacinque anni e scarrozzava i ragazzini del paese da quando ne aveva ventidue, li portava a scuola, li conosceva per nome, li aveva visti crescere, ne aveva perso qualcuno, la droga,
le brutte compagnie, genitori dissennati, brutte storie.
Poi c’erano quelli che ce l’avevano fatta, avevano terminato gli studi e avevano lasciato il paese, lui li aveva accompagnati per un pezzetto di vita ed era sparito insieme ai ricordi del pranzo della comunione,
il bacio dato di nascosto durante la festa del patrono, la serata della bevuta che poi ti svegli il giorno dopo e vorresti essere morto. Tutto cambiava, facce diverse, monelli irrequieti, i timidi, i fragili, quelli
che si vede subito che ce la possono fare, i fortunati, quelli che sembravano fortunati e già te li ritrovi sottoterra.
Amita era l’ennesimo pezzo di vita che gli sarebbe stato strappato via in qualche modo. La bricconcella era in gamba, intelligente, vivace, sicura di sé, autonoma, sarebbe potuta diventare qualunque
cosa avesse scelto di essere, oppure sarebbe stata risucchiata da un sistema punitivo di ingiustificabile odio nei confronti di chi è percepito come un alieno, con l’aggravante del talento. Magari
sarebbe stata costretta a sposare un parente, chissà, un ricco cugino che al momento aveva già trent’anni, a volte quelle famiglie funzionano così. Mai più affezionarsi a una creatura, se lo ripeteva
per giorni prima di ogni inizio anno scolastico e poi quei ragazzini diventavano tutto.
Amita era speciale. Ogni ragazzino lo è, direte voi, ma Amita lo era di più. Aveva subito preso l’abitudine di sedersi su una piccola valigia che Silvestro posizionava vicino al posto di guida che conteneva una camicia di ricambio, detergenti e deodorante, un kit di primo soccorso, il pranzo e uno spuntino, tutto ciò che occorre a chi passa molte ore in viaggio.
«Ragazzina, non puoi sederti là» la ammonì il primo giorno.
«Perché non posso?» lo guardava con aria inquisitoria e le manine sui fianchi, come per dire, adesso ti frego io.
«Perché è pericoloso, se freno ti fai male.»
«Ma io voglio vedere la strada, voglio sapere dove mi porti.»
«Te lo dico io dove ti porto. A scuola. Adesso fila dietro.»
«E io voglio sapere come ci si arriva, così saprò anche come si torna a casa.»
«Come sarebbe? Ti riporterò io a casa, mica devi tornarci a piedi!»
Amita lo squadrava serissima, si prese tutto il tempo necessario e poi rispose «non si sa mai e io voglio sapere la strada.»
Quando il pulmino cominciava a riempirsi la ragazzina prendeva posto tranquilla su un sedile, chiacchierava con tutti, voleva vedere cosa portavano a scuola gli altri ragazzi, prendeva gli oggetti e li
analizzava ma poi restituiva tutto. Alcuni ragazzi si inquietavano, erano irritati da tanta intraprendenza o la temevano, ma quella bambina non aveva mai fatto nulla di grave, forse qualche cantilenante presa per i fondelli o una risposta pesante come un’accetta, ma solo verso chi meritasse un rimprovero o era stato
cattivo con un bambino più piccolo. Era una piccola vendicatrice, odiava i bulli e si esponeva contro i soprusi. Piccola sindacalista in erba, pensava Silvestro, piccola ienetta dagli occhi intelligenti.
Pian piano il pulmino si svuotava e Silvestro continuava il suo viaggio insieme a Amita verso l’ultima tappa quotidiana. Partivano alle cinque del mattino, caricavano i ragazzini tre ore più tardi, a
duecentocinquanta chilometri di distanza dal punto di partenza e poi si salutavano alle otto e venti, giusto in tempo per non prendere una nota di ritardo. La ragazzina frequentava scuole italiane molto
lontane da casa, non perché nel suo paese italiano non ci fossero asilo, elementari e medie italiane, ma perché il Governo dello stato italiano, che era quello in cui era nata peraltro, aveva deliberato che
dovesse esserci solo una piccola percentuale di ragazzi con genitori non nati sul suolo italiano, così Amita non aveva trovato posto nelle scuole italiane del suo paese italiano e ogni mattina viaggiava per tre
ore italiane all’andata e tre ore italiane al ritorno.
La ragazzina e Silvestro pranzavano insieme durante il tragitto, lei gli raccontava cosa aveva imparato, faceva i compiti seduta sulla valigia, togliti da lì sopra ti ho detto, sì ti ho sentito adesso vado. Lei gli
spiegava la matematica perché a dire il vero l’autista non era mai stato bravo a scuola mentre la piccola aveva solo ottimi voti, ma non se ne vantava, lui le parlava dei tragitti che aveva fatto e di quali strade prendere per raggiungere qualunque città. Sapere le cose le piaceva, aveva capito subito che le nozioni sono come armi da difesa, utili nel caso ti perdessi o qualcuno volesse farti del male.
Meglio essere pronti, diceva lei.
Certi giorni era stanca, lui capiva subito se qualcosa non andava.
Una volta le aveva misurato la febbre durante il viaggio di ritorno, «accidenti a te, non te ne potevi stare a casa stamattina?» la rimproverò preoccupato, «e secondo te chi la faceva l’interrogazione di storia al posto mio? Mica voglio diventare una zuccona come te, sai?» rispose lei con gli occhi liquidi di un vecchio che ha vissuto più di quanto desiderasse.
«E allora cosa vuoi fare da grande?»
«Te lo dico il prossimo anno, adesso sono troppo impegnata a studiare per pensarci. Intanto meglio sapere un po’ di tutto, meglio essere pronti.»
Mentre parlava si addormentò appoggiandosi sul suo braccio, cedendo con grazia come se giocasse a rotolare da un piccolo pendio cosicché quel faccino intelligente aderì alla pelle di Silvestro che continuò a guidare contando i respiri della ragazzina con apprensione.
Un giorno Amita era particolarmente silenziosa, erano le sei del mattino e i ragazzini più italiani di lei sarebbero arrivati due ore dopo. Silvestro le lanciava occhiate interrogative attraverso lo specchietto retrovisore, le faceva versetti per farla ridere, doveva rompere quel muro di ostinata resistenza che la ragazzina opponeva a ogni suo tentativo di avvicinarsi ai suoi pensieri.
«Beh? Allora? Pensi al fidanzatino?» sperando che punzecchiandola con un’allusione tanto cretina avrebbe suscitato una reazione stizzita, qualunque cosa purché lei parlasse.
Amita era caparbia oppure disperata, disperatamente caparbia nel suo nascondersi in sé stessa.
Non lasciarmi fuori dalle tue preoccupazioni, voleva pregarla, implorarla, non lasciare che immagini qualcosa di doloroso, che qualcuno ti abbia fatto del male, dimmi che nessuno ti ha ferita. La
piccola ienetta con gli occhi intelligenti continuava ingiustamente a negargli il privilegio di tranquillizzarsi.
«Allora? Non mi rispondi? Guarda che poi quando mi chiedi una strada non ti rispondo», quando ci preoccupiamo troppo diventiamo cattivi.
La ragazzina gli posò finalmente gli occhi addosso.
«Secondo te, un chirurgo lavora sempre in ospedale o può anche avere uno studio a casa sua?»
«Una specie di ambulatorio, dici? Come quello del veterinario?»
«Un veterinario, giusto, anche un veterinario sa fare le operazioni e può avere lo studio in casa, come quello che fa il vaccino al mio cane.»
«Sì però il veterinario cura gli animali e guadagna meno di un chirurgo, cioè, oddio, quello che sta al paese mio si è preso uno stipendio per sterilizzare il mio gatto» rispose lui ridendo.
«Un arto è un arto» sentenziò lei con un’espressione grave e importante.
«Ahè! Asinella cocciuta! Ti dico che un veterinario non opera le persone, anche se ho conosciuto certi dottori che forse era meglio se curavano le bestie. Stai scegliendo cosa vuoi fare da grande?»
«Ma diciamo che io sono un chirurgo e tu ti fai male, diciamo che ti rompi una gamba e abiti nel mio quartiere, facciamo finta che non hai nessuno che ti accompagni all’ospedale, potresti venire da me,
però io non ci sono perché lavoro in ospedale, capito il problema?»
«Mica tanto, perché se mi rompo la gamba chiamo un’ambulanza e mi faccio portare in ospedale da te che mi aggiusti. Quindi…»
Silvestro accompagnò il “quindi” con un ampio gesto del braccio prima di posare la mano sul cambio «ti conviene studiare per fare il chirurgo. Capito? Affare fatto?»
«Ma non puoi chiamare l’ambulanza.»
«Sì che posso.»
«Nella mia storia non puoi.»
«Nella tua storia dovrei farmi operare da te che sei un veterinario? Sono un camorrista nascosto dentro un muro per caso?»
«No! Caprone! I camorristi hanno sempre le cure migliori negli ospedali più importanti dai medici più bravi! Ma non sai proprio niente tu?»
«Ma perché non posso chiamare l’amb…» fu interrotto dallo squillo del telefono, pronto, sì Marianna sto guidando, mano sulla cornetta, sussurro «perché non posso chiamare l’ambulanza? Aspetta che devo sentire mia moglie, un attimo». Silvestro continuò a viaggiare sollecitando la moglie a sbrigarsi perché non poteva guidare con una mano sola.
L’uomo ascoltò senza rispondere, si formarono due pieghe anomale ai lati della bocca, le pupille si dilatarono come quelle di un gatto che punta la preda, la mano sul telefono strinse l’oggetto finché le
mani non divennero bianche, il volante subì un rapido strattone.
Dopo un paio di minuti appoggiò il telefono, no, il telefono gli scivolò sul sedile e rimbalzò ai piedi della valigia. Ai piedi di Amita, che non lo raccolse.
«Tesoro, cosa è successo ieri sera? Hai visto qualcosa di»
orribile,
spaventoso,
disumano,
«strano?»
«Non hai salutato Marianna. Sbagli. Non si sa mai quando parli a qualcuno per l’ultima volta. Meglio essere pronti» lo ammonì la ragazzina, come persa nei suoi pensieri.
Silvestro guardava avanti, i muscoli duri e tesi, quella sera non sarebbe stato in grado di piegare i gomiti.
«Piccola, cosa hai… cosa è successo ieri sera?»
«Sopra un furgoncino della frutta, uno che puzza di pomodori marci, dietro, un adulto ci può stare sdraiato, lo sapevi?»
Non lo sapeva.
«Mio padre non lo guidava, non poteva perché non aveva la patente e non ce l’aveva perché servono i documenti italiani per averla e se vuoi lavorare non puoi avere i documenti a posto, altrimenti fanno
lavorare quelli che non hanno tante pretese, qualcuno si trova sempre. Lo sapevi che c’è sempre un povero che è più povero di te?»
Questo lo sapeva.
«Se non hai documenti non dovresti essere qui, ti devi nascondere nel muro, come quel camorrista, ti ricordi? Quello però si può curare.»
Lo aveva capito.
«Se non puoi stare qui ma questa è casa tua lo stesso e hai i figli che vanno a scuola e tutto e non sei un delinquente, tu lavori di nascosto, giusto?»
Giusto.
«Se succede qualcosa e ti fai male non puoi chiamare l’ambulanza perché devi far finta che non ci sei e tutti fanno finta insieme a te, è come un gioco, capito? Tu non sai che mio padre esiste. Il padrone
non sa che mio padre lavora per lui. Il prete non sa chi siamo. I vicini non conoscono noi perché pure loro non esistono. È un gioco fatto così, capito?»
Guarda avanti, non ti girare, non farle capire che gli occhi stanno pizzicando, sii lesto se dovesse cadere una lacrima, non farle capire.
«Capita che se uno si fa male lo scaricano davanti casa e quello si deve arrangiare. Abbiamo dovuto cercare cinque minuti buoni la gamba di papà che era stata gettata nei rovi, e lui sbattuto davanti
allo spiazzo di casa, neanche urlava, solo non sapevamo come riattaccargli la gamba e il padrone se l’era filata e urlava a mamma pensaci tu. Papà con gli occhi per aria, scattava tutto, si muoveva veloce come se lo avesse punto una vespa, e non mi guardava e non guardava più nessuno.»
E il sangue tracimava dal taglio netto che gli aveva inferto quel macchinario talmente vecchio e pesante che ci volevano persone molto forti o immensamente disperate per usarlo. La gamba gettata
fuori dal finestrino durante la fuga come un mozzicone di sigaretta.
L’uomo in preda alle convulsioni non poteva più riconoscere la figlia che stava lì vicino e vedeva tutto, sapeva, capiva ogni cosa.
Lo aveva compreso perfettamente che se fosse stata un chirurgo si sarebbe salvata da quella vita e chissà dove sarebbe andata a esercitare la professione, rendendo felici e orgogliosi i suoi poveri genitori che non erano italiani, né indiani, né niente, perché non dovevano neanche esistere.
Ma se fosse stata un veterinario sarebbe stata pronta.
Bisogna essere pronti.
Estote parati.
In memoria di Satnam Singh
@Ale Ortica