Qualche volta potrei anche ignorare il maltolto, ma non posso non chiedermi chi è che decide come e quando dev’essere fatto del male a Davide. L’ipocrita parola, si sa, scatena disastri d’incomprensione. Il mondo piagato esiste e resiste, senza che nessuno si occupi di curarlo. Quello che mi spaventa è la necessità di pensarlo, questo mondo. Ammesso che esista. E ammesso che esista anch’io che, in fondo, continuo a subirlo, questo mondo. Ed è lì che scatta la punizione per me. Come mi ha suggerito
qualcuno, sono condannato a fare ciò che voglio. Per cui sono inevitabilmente colpevole. Colpevole di aver parlato e di aver taciuto. Senza dire che. No, no. Senza ripetere altro che il mio nome. Ma lo sapevo io che questo nome – Davide – non andava bene. Avrei dovuto chiamarmi Morto-che-parla. Oppure, work-in-regress. E invece, devo accontentarmi di una voce. L’accattivante suono che cresce e si moltiplica nella gola di chi passa sotto casa mia e, come se provenisse dal sogno di un’estate lontana e irripetibile, mi chiama: o Davide, che fai, scendi? E dai.
©Davide Marchetta