LA CHIAMATA IN H7
Sono passati mesi, la mia passeggiata in corridoio è cambiata. Per anni è esistita una tappa intermedia, partivo dal mio ambulatorio H1 e andavo fino in fondo, là dove ci sono le stanze per la mammografia, e più o meno a metà percorso controllavo che la porta di H7 fosse socchiusa. Se lo era, sbirciavo trattenendo il respiro: avevo la sensazione di intromettermi, sono venuta su con la vergogna di non occupare spazio oppure di occuparne troppo (ecco perché non ho mai avuto il controllo sul mio istinto alimentare) e la curiosità e la voglia di una sana chiacchierata con un amico erano ostacolate dalla timidezza di fronte a una porta chiusa.
– Vieni, vieni!
Sergio si accorgeva di me e urlava così, una bella voce calda e potente e il corpo che occupava tutta la scrivania quando si sedeva obliquo e allungava le gambe avanti. Entravo e volevo subito rassicurarlo:
– Guarda che non voglio parlare della mia salute.
Rideva, scoppiava in una delle sue risate estreme e indicava la sedia.
– Dai, chiacchieriamo.
Parlavamo della bellezza delle emozioni, delle idee che nascevano nei nostri cervelli anarchici ed eccessivi, dei pettegolezzi più intriganti. Sistemavamo le nostre discussioni professionali con un’alzata di spalle. Ci guardavamo molto negli occhi, a volte il silenzio cadeva improvviso e restavamo lì a osservarci con un sorriso fluttuante e vago, senza capire il perché. Al termine dei nostri silenzi ci confidavamo i segreti dell’amore: ascoltavo incantata il suo essere innamorato della moglie, mi perdevo nella gioia sorpresa, stupita della relazione che ancora dopo tanti anni lo teneva appeso al desiderio.
– Tu sei un alieno.
– Sì, forse sì.
Adoravo questo alieno e la sua luce negli occhi quando si meravigliava per la fortuna di un matrimonio libero e felice. Giocavo con il mio essere imprevedibile e quasi mai fedele, mi piaceva che scuotesse la testa criticando le mie scelte e i leggendari scivoloni preoccupandosi perché non avevo mai avuto “un amore degno di te”. Mai che gli piacesse un uomo o una donna che frequentavo.
Poi non abbiamo chiacchierato più. Un giorno è venuto a cercarmi in quello che prima era il mio studio, mi ha detto alcune cose e ha fatto una proposta. Ho accettato, avevamo un sogno e un progetto ed era il momento di renderli concreti. Ma dopo quattro giorni o giù di lì qualcuno mi ha telefonato per dirmi che era morto.
Quindi la mia passeggiata nel corridoio è diventata un’altra: non mi fermo più davanti a H7, è solo una stanza vuota e non ho avuto il coraggio e la voglia di aprire la porta. Fino a questa mattina.
Sono arrivata in ambulatorio con il motorino (da quando Sergio è morto c’è chi dice che qualcuno mi abbia svitato la testa per montarne un’altra del tutto diversa, una delle rivoluzioni è la moto che prima evitavo e ora è il mio mezzo di trasporto più frequente) e ho controllato la lista dei pazienti: è lunga, ci sono nomi noti e nomi che conosco meno. Il camice, il computer avviato, la BIC blu accanto alla tastiera per scrivere note a margine e prescrizioni al di fuori del referto. Ho chiamato la prima paziente.
Quando visito sono rilassata e molto concentrata. E’ improbabile che pensieri diversi dalla salute di chi ho davanti si intromettano a disturbarmi. Ma, saranno gli occhi di questa giovane donna ansiosa sarà la brezza inusuale di una mattina di settembre, in fondo alla mia testa sta nascendo una sensazione. Conosco questo genere di istinto: non lo cerco, arriva da solo e non se ne va. E’ come se qualcuno mi scrivesse dentro una chiamata, non sono io a generare lo stimolo che, da un soffio lieve e appena percettibile, diventa una voce imperiosa che non ammette disobbedienza.
Per la prima volta dopo mesi non solo ho voglia, ma so di avere la necessità urgente di andare nell’ambulatorio H7. La prima visita è seguita da altre quattro, poi un’altra ancora: vedo i volti, ascolto le voci, sorrido e visito, rispondo a tono e prescrivo esami, attese, esercizi energetici, divagazioni, ma i neuroni funzionano con un duplex acceso. Fanno il loro dovere e registrano, intanto, una chiamata sempre più ferma:
– Vai nell’ambulatorio H7.
Non interrompo un ambulatorio, neanche per fare la pipì. Tengo alla puntualità e all’ordine. Disordinata nel resto dell’esistenza, quando visito divento svizzera (ma chi ha detto che gli svizzeri siano sempre puntuali e ordinati?). Comunque oggi l’energia frigge, disturba e stuzzica: meno tento di ascoltare la voce che mi chiama in H7 più questa voce scuote il mio cervello, l’anima, le braccia, le dita che visitano, gli occhi che non sanno restare fermi. Così decido: saluto un paziente e chiedo al successivo di aspettare un momento, mi lancio con passo svelto e il respiro a mezzo verso H7.
Vedo la porta. So che dentro non c’è nessuno ed è proprio il vuoto a spaccarmi l’anima. Sussurro muta al mio cuore di rallentare: non è altro che un luogo, dominerò i ricordi e mi sentirò cretina, ritornerò a visitare con un po’ di magone ma almeno avrò scacciato dai miei sensi la chiamata che mi sta tormentando. Chiunque fosse a convocarmi là, sarà soddisfatto. Allungo la mano per afferrare la maniglia.
– Dottoressa Luini, è lei! Ma è proprio lei!
Una giovane donna artiglia il mio braccio e tira, si alza da una sedia su cui aspettava non so cosa. Appena è in piedi mi abbraccia e scoppia in lacrime. Faccio appena in tempo a notare: siamo esattamente nello specchio della porta di H7.
– Ho pregato tantissimo, ho pregato perché la Madonna mi facesse incontrare proprio lei. Ho una visita questo pomeriggio tardi ma sono venuta qui prima. Ho letto i suoi libri e seguo il suo blog, lei ha così tanta energia… Ho pregato perché la fortuna mi facesse incontrare proprio lei.
Domino la sorpresa, domino la commozione, domino la certezza fulminea e lacerante di avere trovato la spiegazione per la chiamata.
Ma chi mi ha chiamato, chi?
– Mi sono seduta qui perché era lo studio del dottor Caputo, lo conoscevo e ho pensato che da dove è adesso potesse darmi una mano a farmi incontrare lei.
Al margine del mio campo visivo noto una delle segretarie dell’accettazione: è immobile e sembra una statua, una lacrima piccola le viene giù su una guancia.
Apro la bocca per dire qualcosa. La chiamata, l’ambulatorio H7, Sergio Caputo e le nostre chiacchierate. La vita, la morte, il dolore. Poi non dico niente. Prendo la sua mano e la accompagno da me, ambulatorio H1.
A Mario Sideri.
©MariaGiovanna Luini, 2015