DoctorWriter [47] di MariaGiovanna Luini

DI UNA FINE COME TANTE, SUL GOLFO DI NAPOLI

La ascolto e non so a quale punto interrompere. Perché andrebbe interrotta, secondo me: sta raccontando la sua verità, le emozioni se vogliamo usare un linguaggio moderno, ma ogni sillaba mi disintegra il cuore e temo che l’ultima briciola rotolerà fuori dal petto e non la ritroverò più. È grave sopravvivere senza residui di cuore: può servire, dopo.
Eppure so che ha ragione. Cioè, ha avuto di noi la percezione che sputa nel telefono e non posso fare niente: sono stata io a farla sentire così. Ha vissuto la storia come se fosse in prigione e non l’ho mai capito: sono seria, non lo sapevo. Mi sono accorta dei momenti nei quali sono stata gelosa e me ne sono pentita, ho visto le mie esagerazioni: ricordo, so, ma la mente sdoppiata e sciocca evoca anche bellezza. Ma no, la bellezza era una mia fantasia. Non sto dubitando della sincerità che avverto nella voce: dubito della mia intelligenza. Che figa mi credevo, e sono niente. Ha ragione lei. Io sono niente.
Avrebbe dovuto esistere un ricordo indelebile di noi. Sognavo che le sue mille telefonate fossero una libera scelta, che il tentativo di rivoluzionare l’esistenza per stare con me nascesse da un sentimento che – davvero – le scuoteva l’anima. “Vorrei essere con te, separarci sarebbe andare contro il cuore e la carne”, e ci credevo: non avevo calcolato che le parole – pietose, sciocche, meravigliose parole – sono frutto di enfasi momentanee, di una sfrontata bellezza poetica che preme nel petto e lascia subito spazio ai ritorni al reale. Le parole sono vento, tempesta, sole e canto leggero: niente di più. L’avevo dimenticato. Con lei mi sono sentita bella e amata, e ho dimenticato che bella non sono mai stata e che sono niente. Sbagliare ho sbagliato tanto, e non è vero – come lei sostiene, acida – che mi sono autoassolta: non esiste giorno che riesca a evitare di maledire me stessa. Sono niente, non so amare e non avrei dovuto tentare di farlo.
Sono niente.
Vorrei fermarla perché non serve distruggere le scarne memorie rimaste intatte, invece parla, parla, parla: ogni millesimo di secondo è un pezzo dei ricordi che cade in un abisso. Perché ha bisogno di farmi male? Non basta che mi abbia lasciato? Non sarebbe meglio donarmi la pietosa illusione che abbia voluto, cullato, difeso la nostra storia e – semplicemente – sia finita? Fino a ieri avrei detto “la nostra storia d’amore”, ma oggi, adesso, con lo snocciolarsi rapido della verità (la sua verità, non la mia), non posso più usare la parola amore: il suo non c’è, e forse non c’è mai stato.
Fa bene, in fondo. Io sono niente. Voi pensate che io scherzi, ma non è vero: Carla sta restituendo alla mia anima ciò che ha sempre sentito di se stessa. Niente.
Ogni singolo giorno, ogni settimana, ogni mese: descrive Ludovica (io) come una bambina illusa e persecutoria, ossessionata e capace di farla sentire avviluppata da un obbligo. E io, Ludovica appunto, ascolto a labbra semiaperte e mi sento uno schifo. La merda del mondo. Perché non posso negare che abbia ragione: mi ha sentito così, quindi è vero. Io sono stata questo, per lei.
E sono niente.
Guardo fuori: Napoli è bella, così limpida e assente. Da qui, dall’ottavo piano di un albergo scelto a caso (non mi importava molto di questo viaggio), il mare è sciroppo zuccheroso e torbido. Non so come reagire: cosa potrei raccontare a una donna il cui sentimento per me è opposto a ciò che speravo?
Si è pentita di avermi illuso. Lo sciroppo del mare ha onde bianche che si rincorrono: non le avevo notate.
In questo periodo di silenzio è stata benissimo: ha scelto di stare con Gioia e non era obbligata a mandarmi messaggi, ha capito di essere finalmente libera. Una barca, là in fondo: guarda come si agita, forse sotto coperta cadono bottiglie e suppellettili non fissate bene.
Non vorrebbe perdermi ma la nostra relazione la tormenta: ha vissuto tutto come un incubo. Non vedo la spiaggia. C’è, una spiaggia?
Sono niente. E sono stata prigione e incubo. Chissà quando mi sono inventata di essere tanto, invece.
“L’errore fu creder speciale una storia normale”: beato Guccini che ha capito tutto prima di me. Beata Carla che può sbarazzarsi di me con la serenità di dire a se stessa che non valeva la pena tenermi. Beata Napoli, così placida nel suo non esistere.
Beati gli amanti felici.
E maledetta me. Perché sono niente, ma la amo con tutto il mio cuore.
– Signora, signora!
La porta, colpi forti e secchi e l’odore del mare.
– Signora!
Rotolo dal letto, Carla borbotta qualcosa.
– Ma chi cazzo…
Apro, gli occhi di una ragazza in divisa dell’albergo mi scrutano. Mi ricordo: sono nuda.
– Mi scusi, io.
Nella testa ho nebbia, l’odore delle sigarette e del sesso deve avere colpito anche lei: arrossisce, balbetta.
– La colazione in camera. Mi scusi ma temevo fosse successo qualcosa.
La accolgo, senza indossare niente. Vedo che occhieggia a Carla, anche lei nuda e addormentata a braccia spalancate sul letto. Armeggio con la borsa: dieci euro, tanto Carla non vede. La ragazza ringrazia e scappa via.
– Cosa succede?
-Niente, amore. Il tuo caffè.
– Ma ora ritorna qui, dammi un bacio amore mio.
E nelle lacrime di sollievo del risveglio butto via i residui di un sogno.

Dedicato a chi va in frantumi, perché ritrovi la strada.

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