IL ROMANZO DEL MAGISTRATO
Questa pubblicazione a puntate scioglie un destino. E’ il primo romanzo che ho scritto, il romanzo che chi mi conosce aspetta che sia pubblicato perché – pare – la trama piace. Il romanzo finora bloccato: qualcosa si mette sempre in mezzo. E’ ora che queste parole escano e si lascino leggere.
Quando esiste un blocco, Luce ed Energia lo forzano e dissolvono le ostruzioni. Uso quindi Luce ed Energia e dono “il romanzo del magistrato” a puntate ai miei lettori in Sdiario.
E il blocco si scioglie, voilà.
Capitolo 5
Lo studio di Riccardo, al primo piano della casa, aveva una finestra affacciata sulla parte del giardino dove tutto era accaduto. Gianna non smetteva di fissare le particelle di cielo che, rarefatte ma non abbastanza da rendersi invisibili, si muovevano roteando nello spazio tra le sue pupille e l’abisso. Aveva la sensazione che quello spazio fosse un cumulo denso capace di dilatarsi e restringersi, e se si fosse sporta fuori sarebbe stata inghiottita da una disperazione vischiosa che ancora stentava a ghermirla del tutto.
Non l’avrebbero più lasciata avvicinare, non finché Riccardo fosse rimasto in giardino. Strano come le persone amate smettano di appartenere al loro ambiente appena muoiono. Avrebbe voluto baciarlo ancora, magari recuperando qualcosa dalla consapevolezza che riusciva a scovare in fondo a un cervello stordito: se avesse saputo che stava per morire l’avrebbe baciato meglio, prima; non sapeva come, ma meglio. Forse gli avrebbe detto che lo amava, quanto fosse importante, oppure gli avrebbe raccontato i momenti di incertezza, la gelosia, la rabbia per i tradimenti. Avrebbe cercato di riportarlo in casa, nel letto dove avevano fatto l’amore: l’aveva spogliata con un desiderio che l’aveva stupita per intensità e urgenza, era stata una notte inattesa. Eppure adesso non ricordava di averlo visto appagato. L’aveva seguito nel suo desiderio frenetico? Aveva risposto alle parole? Il cuore diceva di sì, la mente non ricordava altro che il corpo e il suono gutturale della voce. L’odore della sua pelle su di lei.
L’odore: provò a scomporlo nelle sue parti. La pelle di Riccardo era acida, cambiava quando la passione lo travolgeva: avrebbe potuto riconoscerlo nelle fasi differenti dell’eccitazione o della rabbia o del divertimento, e nel periodo recente quell’odore era diventato strano, inusuale. L’avrebbe definito freddo, da aria condizionata sbattuta addosso: un paio di volte si era spaventata perché aveva pensato all’odore dei morti nella camera mortuaria, poi aveva scacciato l’idea.
Era estrema nell’interpretazione dell’odore di Riccardo, l’aveva odiato tutte le volte che ne aveva intuito il carico animalesco di sensualità e tradimento o quando aveva temuto che fosse malato. Lui rideva, la prendeva in giro per la sua tendenza a drammatizzare . Rivide i suoi occhi: erano verdi, più scuri nei momenti di rabbia o profonda tristezza. Uno non c’era più, l’aveva visto esplodere: non l’avrebbe più ricordato senza il colpo che l’aveva spappolato.
Fissava il lenzuolo sporco di sangue quando sentì bussare.
– Gianna.
Aveva atteso la voce da quando l’avevano staccata da Riccardo. I passi alle spalle. Le mani prima le sfiorarono la schiena, poi la abbracciarono.
– Come.
La voce morì. Non era riuscito a dire “Come stai?”.
– Ti hanno picchiata?
Scosse la testa.
– Vieni via, è inutile. Non possiamo fare niente. E ti hanno già fotografato in troppi là fuori. Che iene, quasi non si passa. Oltre il cancello hanno messo camper e tavoli da campeggio.
Non si mosse. Giuliano la scosse ancora e ancora, lieve.
– Dai. Togliti, fammi il favore. Non hai idea di cosa possano inventarsi con quattro fotografie. E non credo che si possa restare in questo studio, lo vorranno controllare.
Uscirono e attraversarono il corridoio: l’altro studio era una stanza con una finestra enorme aperta sul lato opposto del giardino. La finestra era il dettaglio che preferiva: faceva piovere una luce perenne sulla scrivania, sulle due poltrone con il piccolo tavolo in angolo, sulla biblioteca stipata di libri. Amava la luce perché cancellava l’angoscia. E si vedevano gli alberi: le capitava di fissarli pigra e, dopo un po’, scorgeva intorno alle loro fronde una specie di aura luminosa, un chiarore appena percettibile. Erano vivi.
Giuliano la fece sedere su una delle poltrone che lui stesso le aveva regalato: le aveva notate in un negozio del centro e si era presentato un sabato con un camioncino sporco, le aveva trascinate su per le scale e sistemate nello studio.
– Dimmi cosa posso fare per te. Forse dovresti venire a stare da noi per qualche giorno.
Scosse la testa e alzò una mano, intuì che si aspettava il rifiuto.
– Immaginavo. Ti capisco, ma sarà dura. Sicura che vuoi stare qui? Sarà un inferno.
Attese. Poi, incerto, continuò a parlare.
– Senti, ma questo silenzio? Stai zitta per scelta o non riesci a parlare? Valeria ha detto che è il trauma, sono riuscito a vedere un attimo un medico che ha confermato, ma mi preoccupo. Non riesci a parlare o non vuoi?
Reclinò la testa e aprì la bocca, riuscì solo a sospirare.Lui appoggiò il volto a una mano.
– Che casino, Gianna. Che grande e orrendo casino. Non riesco a pensare, mi sembra troppo grossa. Sono qui che provo a inventarmi qualcosa per aiutarti, essere utile in qualche modo, ma è impossibile. E ho ancora da fare, devo andare alla scuola per prendere Chiara e dirle cosa è successo, ci pensi? Adora Riccardo, è innamorata di suo zio. Le ho fatto togliere il telefono come se fosse in punizione, ma prima che finiscano le lezioni la devo andare a prendere e dirglielo. Meno male che Valeria pensa a Elena, non so cosa inventerà. Chissà se capisce cosa sia la morte, a tre anni. Chissà se si ricorderà di lui. E la cosa peggiore è che sono qui a lamentarmi solo per riempire il silenzio perché vorrei sentire qualcosa da te, avevo paura che fossi morta e quando Valeria mi ha detto che non ti avevano sparato mi sono sentito sollevato. Sollevato, capisci? Non sapevo se stare male per Riccardo o essere contento per te. Adesso mi preoccupa che non parli, mi chiedo se ci sia da chiamare Gemma o aspettare: è una psicoterapeuta, saprà indovinare se sia stato il trauma, no? Oltretutto è la tua migliore amica, se da psicoterapeuta non sa dire niente da amica intuirà senz’altro cosa stia succedendo. Ti conosce bene, meglio di me. Non parli, ti hanno fatto del male? Non capisco. Vorranno farti molte domande, hai visto cosa è successo. Non credo ci siano altri testimoni. Se non parli come fai?
Lo fissava mentre tirava fuori parole a raffica come se avesse il terrore del silenzio, ne riconosceva i movimenti piccoli, le incertezze e gli scatti improvvisi, trattenuti e sciolti in un autocontrollo eccessivo. Stava tentando di tirarle fuori qualche parola ma stava anche scappando dall’orrore che li aveva investiti, combatteva contro il desiderio di chiederle i dettagli. Dalla finestra entrava il sole.
Poi vide le lacrime: Giuliano piangeva in silenzio. Qualche rapido singhiozzo gli scosse le spalle, lei annaspò per trovare qualcosa da dire e la voce per farlo. Si chinò avanti, gli afferrò una mano e la tirò a sé, gli accarezzò il viso asciugandolo con le dita. Con qualche difficoltà si alzarono e si abbracciarono, lui la strinse. Il dolore al torace all’inizio fu tenue, remoto, poi colpì duro e le spezzò il fiato: spalancò la bocca e tentò di respirare. Anche il sole dalla finestra la colpì, gli occhi si riempirono di luce. Sentì la sua mano che le accarezzava la nuca. Fu allora che, finalmente, svenne.
(Continua…)
© MariaGiovanna Luini, 2015