A me piacciono le bande, quelle di paese.
Mi piacciono perché si muovono ordinate – a volte no – come una pacata onda che ti avvolge la mattina presto su qualche spiaggia solitaria e ti fa sentire un po’ sabbia, un po’ mare, un po’ vento, un bel po’ parte di un tutto.
Mi piacciono le bande di paese perché sono le vere scuole di musica, quelle iniziatiche, quelle dove si apprende lo stupore oltre alla tecnica.
Mi piacciono le bande di paese per i suoni che mutano al passaggio e che vorresti inseguire quasi fossero ciclisti in fuga sul Mortirolo, per non perderli di vista e condividerne lo sforzo.
Amo gli arrangiamenti per banda così sbilanciati sui fiati e con i tamburi a marcare il passo, gli ottoni a chiudere le fila come una saracinesca di diga a trattenere un lago.
Mi commuovo quasi sempre, ascoltandole, come solo un adulto sa fare, e non è nostalgia: è proprio emozione; il cuore che rimbalza in qualche parte dell’anima e fa l’altalena sulle mie corde sensibili.
Le bande musicali di paese sono come i cori o come una catena umana, lì stretti gli uni agli altri a generare un gesto unico, un’armonia che se la controlli troppo perde tutta la sua bellezza.
È sudore dentro divise che ricordano quelle militari, ma sono più divertenti, non si mimetizzano, tutt’altro, emergono, spiccano il loro tono acceso, il bianco, il celeste scuro a volte l’amaranto e sono divise che non fanno la guerra, non difendono indifendibili, non reprimono.
Amo tutto questo: è la mia memoria ancestrale.
Dovremmo essere sempre una banda di paese, perché sapremmo di averlo un Paese, dei muri amici, uno strumento da suonare, un’armonia da rispettare, lo stare uno a fianco all’altro, essere l’altro, il prossimo, il sé.
Quando sento una banda di paese, mi viene voglia di suonare il clarinetto, essere un oboe, vestirmi da ottone, segnare il passo e ondeggiando trasportare al largo cuori in coro su barchette di carta da musica.
©Paolo Gerbella, 2020