Luce
Non era mica un lampione normale, lui. Tanti anni addietro era stato lampione del mondo. Aveva illuminato una delle vie più belle della città. Aveva visto passeggiare sotto il suo cono di luce corpi caldi e vivi. Aveva udito parole e rapito risate. Aveva rubato lacrime ed era rimasto sordo otto volte in tutto per il fragore di una carezza. Ricordava ancora l’inno al primo sorso di notte. Archi lenti e poi a crescere, poi i tamburi e i fiati di contorno. Che poi, i fiati lui li gustava nelle sere d’inverno, quando questi andavano alla ricerca di Dio, uscendo dalle bocche in respiri lenti.
Persone avvolte dalla lena altrui, persone assolte dalla pena e poi, genti povere e ricche. Accolte. Tutte dalla sua luce.
Così quando lo trapiantarono altrove, dove i mammiferi gli tiravano pietre in bocca e gli orinavano sui piedi, il lampione del mondo si sentì protagonista di uno spettacolo dalle corde rotte. Una prova e non un concerto. Perché l’inno non si sbaglia quando non si deve sbagliare. Si sbaglia solo per provare.
Eccolo qui, vittima del cipiglio di un assessore che lo voleva morto e buio. Non aveva l’aletta di Renzo Piano, e nemmeno la lampada che consuma poco. Era uno con il cappotto, anche d’estate. Sapeva di dover morire perché l’avevano affogato. Non come la volta passata, in cui era bastato trapiantarlo. Stavolta i piedi glieli avevano stretti nel cemento. Avrebbero dovuto tagliargli le gambe in un fragore di scintille basse.
Mica gli importava. Lui sentiva la città meglio degli altri perché sapeva cosa c’è sotto gli strati. Sapeva cosa si nasconde nelle urgenze delle auto e ricordava la lezione di quelli più importanti di lui. Che poi i semafori non li aveva mai considerati importanti. Solo autoritari. Invece a lui era concesso trattenere la notte del mondo in una scintilla. Di tanto in tanto ci provava, quando passava un bambino dal passo svelto, solo. Allora inspirava la memoria di tutte le strisce pedonali che nel tempo si erano avvicendate a pochi metri da lì. Erano comunque riuscite a restituirgli dei riflessi. E lui ne aveva fatto tesoro. Così come aveva tenuto da parte l’eco cristallino dell’occhio del gatto. Anche di quello che non era stato abbastanza veloce. Da quelle luci lì aveva imparato. E sapeva come usarle per splendere un po’ più del solito, in una pienezza che sapeva di avere.
Abbi cura di splendere, diceva a se stesso. E il bambino aveva un po’ più di luce per passare.
Durante il giorno gli avevano messo dei picchetti intorno, collegandoli con dei nastri bianchi e rossi. Così aspettava, l’ex lampione del mondo, anche quella sera. Sarebbe stata l’ultima, lo sapeva. Poi le scintille ai piedi. Ma non era a questo che pensava. Da lì a poco sarebbero passati di nuovo loro due. Lei, con i capelli raccolti e la tuta gialla, lui, sempre a braghe corte, anche con la pioggia e la neve. Correvano l’uno incontro all’altra e proprio davanti a lui si oltrepassavano respirando a ritmo della corsa. La prima volta gliel’aveva detto un coccio di vetro per terra. Aveva riflesso la luce dei loro occhi che si abbassavano per non incontrarsi. E lui, al coccio, aveva creduto subito.
I loro fiati si portavano dietro il sapore dell’argilla e del sangue. Non cercavano Dio. Speravano solo di fondersi per un attimo. Ma finivano sempre nel buio del cielo in cui si perdono le evitabilità.
Alla fine arrivarono, precisi come sempre, anche quella sera.
Il lampione del mondo era pronto. Espirò tutto il passato di ombre che gli era capitato di incontrare, quasi si spense. E quando i due furono sotto di lui, nel momento in cui gli sguardi si abbassavano come sempre, ricordò. Le luci della città, quelle degli occhi dei bambini e delle madri, quelle del sangue che scorre nelle vene e diventa bagliore. Inspirò miagolii d’amore e passaggi d’autunno, riverberi lontani di cucine alle otto e macchie azzurrine di schermi in estate. Il cemento che gli stringeva i piedi vibrò. E la lampada brillò come non aveva mai brillato. Tornò l’inno con tutta la sua orchestra e nell’esplosione in un milione di scintille che seguì si sentì applaudire ogni riflesso. Fu un boato epico. I due corridori portarono d’istinto le mani alla testa e finirono l’uno contro l’altra, mentre le scintille scendevano su di loro. Caddero. E quando si trovarono al buio, illuminati solo dalla luce dei loro sguardi, si sorrisero. Il lampione si spense per sempre, diluendosi nell’aria come l’ultima nota di un pianoforte. Fece in tempo a sentire il nome di lei: si chiamava Luce.
Non poteva che essere così.
I due parlarono a lungo. Infine, si scambiarono il numero di telefono. I fiati, finalmente, erano liberi di incontrarsi. Poi lui attraversò sulle strisce, salutandola con un cenno d’amore e di speranza.
Ma era troppo buio. L’autista del furgone non lo vide proprio.
© Alessandro Morbidelli