Con tutto il rispetto per le vongole (ovvero lettera di un’insegnante nativa alle sue classi reali e immaginarie)

Con tutto il rispetto per le vongole
(ovvero lettera di un’insegnante nativa alle sue classi reali e immaginarie).

di Nicoletta Vallorani

Sono un’insegnante, figlia di insegnanti, sorella di un’altra insegnante e che, ormai tipo trent’anni fa, ha incontrato l’uomo della sua vita in una scuola disastrata, dove lavoravano insegnanti magnifici. Faceva l’insegnante, come me. Poi ha fatto il preside, ma è rimasto insegnante nell’anima.
Gli insegnanti parlano. È normale. A volte predicano, ma come scrive Enzo Mari in quel gioiello perduto che è La valigia senza manico, non hanno mai risposte definitive. Tracciano percorsi, che alle volte hanno questo aspetto qui:

Gli insegnanti spesso si autodenunciano come tali, collocandosi, in Italia, in una categoria disgraziata, e destinata all’estinzione non solo fisica ma anche simbolica: scelgono, cioè, di essere dalla parte dei cari estinti (cari in senso emotivo, perché in verità non costiamo una cippa, e questo è uno dei mali). 
Sebbene fosse quasi impossibile partendo dalla condizione di insegnante per scelta, negli anni sono riuscita a peggiorare il mio marketing aderendo in modo sistematico alle cause perse e praticando anche di recente forme di protesta ben distanziate e mascherate, per esempio, sotto la sede della regione in compagnia di vittime e abusati di ogni età, genere e appartenenza ideologica (ammesso che l’ideologia, davanti alla malattia e alla morte, voglia ancora dir qualcosa). Vorrei rassicurare i lettori: ci siamo tenuti lontani gli uni dagli altri, unendo i nostri cuori nella giusta protesta contro l’imbarazzante sconclusionatezza dei governanti. 
Che anche questo è un fatto.
Scelgo i miei santi e i miei modelli (spesso estinti pure loro), e di recente sono anche riuscita a riconciliarmi temporaneamente con l’opposizione politica in regione quando ho visto un esponente di Più Europa inginocchiarsi davanti a un governatore catatonico, implorando dei dati che dovrebbero essere diffusi di default. Possibilmente corretti e al netto di ogni “rivalorizzione”, che è il nuovo nome per “inaccettabile errore”: segnatevelo perché vi potrà servire quando sbaglierete a fare le somme e vi dovrete giustificare, anche se penso che verrete licenziati lo stesso. Non fatevi illusioni: per i comuni mortali la rivalorizzazione resta un inaccettabile errore. 
La scena dell’inginocchiamento, comunque, è la dimostrazione di come un atto rubricato come sottomissione riesca a essere più rivoluzionario di un pugno.  Anche la grammatica dei gesti cambia, come il linguaggio delle parole, più mobili e interessanti di come le vorrebbero alcuni presentatori televisivi. E bisogna stare attenti che ci cambino i significati sotto il naso, togliendoci di mano il timone della nostra vita.
Dobbiamo sapere sempre di che cosa ci vergogniamo e di che cosa no, perché in tempi in cui certi politici non si vergognano abbastanza da dimettersi, almeno noi persone normali dobbiamo, penso, avere le idee più chiare.
Perciò, secondo me, ragazze e ragazzi, ecco la mia personalissima lista.
Abbiate vergogna di cambiare nome alle cose, sperando di cambiarne la sostanza. È una magia pericolosa che a pochi riesce, e di solito solo davanti a un pubblico cieco.
Abbiate vergogna di accettare che adulti in posizione di potere cambino nome alle cose per ricavarne un vantaggio: protestare si può. Ancora.
E a proposito: abbiate vergogna di tacere quando è giusto parlare.
Però abbiate vergogna di parlare quando non vi siete informati e dunque non sapete quello che dite.
Abbiate vergogna di accettare quel che non è giusto solo perché tanto poi rifiutare a che serve.
Abbiate vergogna di subire: vi fa male da ogni punto di vista, ed è una malattia mortale per la vostra dignità.
Abbiate vergogna di lasciarvi dominare da persone che non stimate: se proprio siete costretti a obbedire, c’è sempre uno spazio libero che potete frequentare (cercatelo dentro invece che fuori: è una realtà possibile).
Abbiate vergogna di non arrivare in fondo a questo testo solo perché è concettualmente una piccola sfida: non è difficile, e mica sono Joyce. Sto solo scrivendo delle cose che non vi fanno comodo.
Abbiate vergogna di sprecare il vostro tempo, perché è un dono e non va buttato via.
Abbiate vergogna ad arrendervi: a combatter sempre forse si vive meno, ma meglio.
Abbiate vergogna a restare soli anche in mezzo a una compagnia, perché la solitudine è uno stato mentale e non dipende dal numero di persone che urlano intorno a voi.
Abbiate vergogna a comportarvi come pecore, senza offesa per le pecore: il fatto è che voi non lo siete. 
E infine: abbiate vergogna quando sapete, in tutta onestà, di aver fatto una cosa vergognosa, indipendentemente da quel che vi dicono i vostri gregari. Siccome paradiso e inferno non esistono, nessuno vi darà un premio, e probabilmente non vi ameranno tanto in questi tempi barbari. Però bisogna render conto solo a se stessi. E se non si è banditi, non lo si diventa.
Abbiate vergogna di perdere il sorriso, che ci son posti dove a esser giovani si finisce in gabbia senza neanche sapere perché, e ci si resta quasi un anno, come sta succedendo a Patrick Zaki. Oppure si muore, come è successo a Giulio Regeni, senza che si riesca, dopo quattro anni, a sapere perché. Abbiate vergogna di ignorare questi fatti e siate fieri di ricordarli.
Perché in questo consiste essere persone e non vongole.
Con tutto il rispetto per le vongole.

© Nicoletta Vallorani, 2020

 

Nicoletta Vallorani

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