L’eco delle raffiche si allontana. Se ne sono andati. Il bambino si alza lentamente, pulendosi il naso con la manica del maglione troppo grande. Non c’è niente che si muove, solo un filo di fumo si alza pigro da un pullman rovesciato, le ruote all’aria come un insetto gigante.
Scivola fuori dalle macerie e ricomincia a cercare, gli occhi fissi a terra e le orecchie tese. Ha già in mano una latta e un vecchio manico di scopa. Questo va bene, per il fuoco. Tutto può servire, lo sa. La guerra ha cambiato tutte le cose. Ieri ha chiesto alla madre:
– Quand’ero piccolo c’erano i negozi, vero, mamma?
Lei ha detto: Quand’eri piccolo? E adesso come sei?
Sorrideva, ma triste, e quando si è voltata una mano è corsa sugli occhi. Lui ha capito, perché è grande davvero, ormai, ha nove anni. Be’, quasi, mancano solo otto mesi.
Gli occhi si muovono attenti. In quel mucchio di mattoni c’è qualcosa.
Un accendino! Questo sì che è prezioso!
Blocca la mano a pochi centimetri. E se è una trappola? Lo sa, che ci sono. Nella cantina della scuola li ha visti, i cartelloni con le foto delle mine. E poi…
Di colpo il ricordo lo riempie e gli scoppia dentro: l’urlo, la gamba con il mucchio rosso al posto del piede, l’odore. E il giorno dopo, il posto vuoto nel banco vicino.
Basta. Non vuole pensarci. Strizza gli occhi, li riapre e allunga deciso la mano, trattenendo il respiro.
Quando sente la plastica tra le dita, nel silenzio delle macerie niente è cambiato. Il sollievo si spande caldo sulle guance e sul collo.
Al clic, una fiammella giallastra oscilla piano. Funziona!
Lo spinge in fondo alla tasca e sorride, mentre prosegue adagio, continuando a setacciare il terreno. Non si era mai spinto così lontano.
Arrivato alla piazza dove c’era il bar, un rumore lo gela: passi e voci. Sono vicini, deve trovare un nascondiglio, subito! Si guarda intorno disperato.
Quello che resta della piazza è ingombro di macerie, ma non ci sono nascondigli. Le voci e i passi pesanti degli anfibi ormai sono a pochi metri.
Si morde il labbro a sangue, sta per buttarsi a correre alla disperata, quando lo vede.
Un bambino biondo, sporto a metà dietro un pezzo di muro, che agita le braccia facendogli cenno di andare.
Scatta veloce, l’altro si scosta e lui si getta senza pensare, il cuore che batte in gola. Il bambino lo prende per mano, fa cenno di tacere e si acquatta a terra con lui.
C’è poca luce, ma capisce di essere tra le macerie del bar. I resti del soffitto fanno da tetto, appoggiati al vecchio bancone che sporge spezzato dal terreno. Distratto, lui scivola, la latta gli sfugge e atterra con un fracasso pauroso. I due bambini si immobilizzano, tremanti, le orecchie tese.
Nulla.
Sollevati, si guardano, curiosi, stanno per dire qualcosa quando uno scalpiccio di anfibi li blocca.
La voce è dura e molto vicina.
– Eppure, ho sentito qualcosa.
Uno strattone al braccio. Le labbra del biondo sillabano in silenzio Sono i miei o i tuoi? Lui alza le spalle, adagio. Boh.
Da fuori, rumore di passi.
– Sarà stato un gatto, non c’è spazio per nascondersi, qui.
– Magari fosse un gatto, sai quant’è che non mangio carne?
Mentre le risate si allontanano, dentro i resti di uno specchio rimandano schegge di sorrisi dalle facce sporche.
– Credo che erano i miei – dice il biondino – Sei molto lontano dalla tua zona.
È vero, è troppo lontano e tra poco farà buio, deve tornare, mamma sarà preoccupata.
Mette fuori la testa e si guarda intorno, poi si volta indietro, ficca l’accendino nella mano dell’altro e dice:
– Ci vediamo domani, amico?
L’altro sorride, dice:
– Sì, amico, ci vediamo domani.
©Euro Carello, 2010 (tratto da Il seme del nemico – LAB – Giulio Perrone Editore)