È sabato. Sono tutti chini con gli occhi sopra al foglio. Hanno dieci, undici anni. Il compito che ho dato loro è intrigante per qualcuno, una noia per qualcun altro. Succede sempre così, nei laboratori di scrittura che porto nelle scuole medie. Si aprono mondi, crollano certezze, tutto diventa materia plasmabile dalla parola.
Devono compilare una scheda. Mettere crocette qua e là, completare spazi lasciati in bianco, ma soprattutto, immaginare, pescare nel repertorio delle proprie esperienze e costruire con l’immaginazione un personaggio dal nulla.
Tempo addietro, qualcuno si sbagliava e alla voce “nome” metteva il proprio, senza cognome, perché gli adolescenti sono puntuali. Così mi sono fatto più preciso io e adesso le caselle da riempire sono due: “nome e cognome dello studente” e “nome del personaggio”. Mi piace partire da qui. Lo faceva anche un caro amico che non c’è più, Massimo Mongai. Lui scriveva come cucinava e leggeva come mangiava, con amore, e a me piacerebbe che i ragazzi provassero lo stesso amore per il loro personaggio. Quando dovranno scrivere cosa fa nella vita, nove maschi su dieci scriveranno “calciatore” e nove femmine su dieci “youtuber”. Oggi sono una trentina, mi aspetto almeno tre sorprese. Sono loro a regalarmele: A., M., P.
A. mi osserva con due occhi che sanno di deserto. Gliela leggi nelle iridi scure come la pelle, la storia di chi non si è fermato. Parla con lo sguardo, ma sa anche scriverla con la penna, perché le caselle del nome dello studente e del personaggio riportano la stessa parola che inizia per A.
Quant’è alto il tuo personaggio? Come me. Quanto pesa? Come me. Che lavoro fa? Va a scuola. Qual è stata la sua gioia più grande? L’arrivo in Italia. È mai stato triste e perché?
E qui il foglio rimane bianco, come l’orizzonte che si trova a fissare. Prova a iniziare una frase due, tre volte. La cancella sempre. La matita lascia solo un’ombra ocra. Alla fine scrive “sono tanto contento di essere arrivato in Italia”. Mi guarda e sorride, quando gli rispondo che anche io sono contento che lui sia arrivato in Italia. Il suo personaggio guarda solo verso il futuro. È giusto che sia così.
M. non scrive niente. È arrivato in Italia dal Myanmar da poche settimane. Non parla italiano, non parla inglese, non parla proprio. Credo sia più grande dei suoi compagni, ma non abbastanza per poter sostenere il peso di tutto questo silenzio. Quando gli passo accanto mi cerca con lo sguardo e con la punta della matita indica la parola, come a dirmi, ma che diavolo significa? Allora gesticolo, faccio scenette da avanspettacolo che lo fanno ridere, disegno sul banco un omino che usa il martello su un chiodo e uno che dipinge una parete, così capisce che parliamo di un mestiere.
Parola dopo parola. Me le indica tutte. E tutte gliele mimo, gliele disegno, gliele recito.
Il personaggio di M. si chiama Julius. Sta studiando per diventare dottore.
P. è quello più intraprendente. Parla un italiano fluido e indossa una felpa del Milan. Mi aspetto il solito calciatore, invece rimango a bocca aperta. Anche questo piccolino viene dall’Africa. Ha pelle d’ebano e sorriso bianco come la verità. Il suo personaggio mi uccide. Che lavoro fa? Soldato bambino. E poi mi racconta che esistono, i soldati bambini, devo fidarmi di lui quando mi dice che ce ne sono e ce ne sono tanti. Allora gli dico di pensare a un lavoro bello, uno che gli piacerebbe per il suo personaggio, perché deve volergli bene, a questa opera di fantasia. Allora ci pensa un po’, cancella la parola “soldato”. Ride.
Esco da scuola nel cielo grigio di una giornata che vorrei finisse subito.
Mentre salgo in auto squilla il cellulare. È il Cliente. Latra contro l’idraulico che gli ha messo un metro di tubo in più sul conto del bagno, gli toccherà spendere ventiquattro euro oltre al preventivo, le parole che gli dedica sono irripetibili. Provo a calmarlo, dicendogli che sentirò come mai ci sia stata questa discrepanza di contabilità, ma lui non mi ascolta. Le maledizioni che manda riguardano tutta la famiglia dell’idraulico, moglie e figli piccoli. Gli chiudo il telefono in faccia. Oggi posso.
Trascorro un sabato tranquillo, lavoro e ne approfitto anche per scrivere un po’, vado a dormire e mi sveglio presto, la domenica mattina. Dopo una doccia, controllo il cellulare. Su Whatsapp c’è l’immagine di una colomba adagiata in mezzo ai fiori. Sotto c’è scritto “Buona domenica delle Palme. Pace e Serenità”. Me l’ha mandata il Cliente.
Mi chiedono spesso perché vada nelle scuole. Quando racconto queste storie, mi dicono che non fa bene circondarsi di troppo dolore. Eppure io credo di saperlo distinguere, ciò che mi fa bene da ciò che mi fa male, ciò che distrugge da ciò che costruisce. Solo così capisci sei. A volte, non serve nemmeno usare troppo l’immaginazione.
©Alessandro Morbidelli, 2019