Senza forzature
Sono vestita troppo coperta per fare la puttana: pochi colori addosso tra il nero e il verde militare, un jeans sdrucito ma nemmeno troppo.
Questi anfibi da uomo ai piedi, poi.
I capelli, quelli sì che ingannano, di un biondo invadente e sfacciato che non mi sogno nemmeno di contenere con l’ombra di una treccia. Non sono facilmente codificabile, non sono semplice da raccontare, non sono sposata né ho bambini miei a cui pensare, ché se li avessi, forse, non starei a pensare a quelli delle loro donne e li lascerei in pace senza raccontargli cose strane tipo che “non si gioca né a seviziare le lucertole né con le armi giocattolo”. Devo essere lesbica, ma sì, per forza. Però non come le fighe che si vedono dentro i filmini, più che altro una di quelle sfigate che chissà che problemi ha avuto col suo Dio. Oppure no: sono solo una che non si è nemmeno saputa tenere un uomo ed è pure sterile, se del caso. E allora per forza che me ne vengo qui al campo, tra l’erba e l’immondezzaio, tra le pozzanghere in cui scivolano minuscoli piedi scalzi accanto ai topi che oramai non si spaventano più.
Da quello che hanno capito arrivo in questo posto per scrivere le mie storie, scriverle nei libri e da qualche parte sui giornali, ma nel frattempo cerco di infilare nelle menti delle loro donne una serie di follie che non stanno né in cielo né in terra: contraccezione, diritto alla parità, visite intime con medici anche maschi, ribellioni da mariti-padroni e perfino dissennati desideri di libri. Adesso una di loro si è messa in testa di imparare a leggere e scrivere, ma questo si vedrà; per adesso ci ridono dietro, a me e a lei, ed entrambe sappiamo che certamente non è la cosa peggiore che può succederci.
Gli uomini mi trattano perfino alla pari, però; è un privilegio che mi concedono volentieri, senza forzature. Ché loro di forzature non sono abituati a farsene.
Mi accordano un rispetto che, comunque, ho strappato nel tempo a forza di unghie e lacrime ricacciate nella gola. Con indulgenza mi porgono la mano come fanno tra maschi: bassa, col braccio che scivola lungo ai fianchi e la stretta sicura che arriva fin quasi al ginocchio. Mi circolano attorno giusto il tempo di capire se faccio troppi danni e se ho bisogno di qualche cosa, ma ormai lo sanno che non ho bisogno mai di nulla se non che mi lascino vagare qui assieme alle mie idee strane di libertà, alle penne, i quaderni a quadretti. Quindi spariscono a far cose di cui non si parla, cose da maschi e da sopravvivenza bastarda.
Infine, quando si fa sera, mentre me ne ritorno verso la città e lascio questa periferia a farsi inghiottire dal buio, mi raggiungono a turno rumorosi e si accostano rapidi con le loro macchine lasciando nell’aria il fischio e la puzza dei pneumatici strisciati sull’asfalto.
– Vai piano, chiuditi bene dentro la macchina con la sicura – mi dicono – e se hai bisogno chiama, c’è un sacco di brutta gente qui.
– Ma ti sei visto te?
Un saluto a palmo aperto col mezzo sorriso e ci lasciamo andare via, ognuno a ritornare dentro la nostre strane vite, rassegnati al fatto che no: non riusciremo così facilmente a cambiarci a vicenda.
© Katia Colica