Per futili motivi

Ph. Engin_Akyurt

Ma in fondo io che ne so perché ammazza la gente, davvero, io non lo so.
Io, che l’ho quasi fatto. Qui, dentro al carcere, ho anche letto gli articoli che hanno parlato di me: “Tentato omicidio: donna fracassa il cranio al compagno per futili motivi”.
E per un po’ ho creduto anche a questo. “Tanto ormai – mi sono detta – che senso ha spiegare. Se una cosa è grave per me non è detto che non sia futile per un altro”. È tutto così confuso, incerto, soggettivo. E io pago quel che c’è da pagare, ci mancherebbe.

Però da poco ho scoperto che il mio motivo, pure che è futile, ha un nome strano e si chiama gaslighting. Lo dice la psicologa con cui parlo il lunedì; dice che – errori a prescindere – alle cose è bene dargli un nome, perché così diventa tutto più chiaro e pure noi diventiamo migliori se ci capiamo. E io a lei credo. Ci credo perché – fosse anche per lavoro – ma è l’unica che in vita mia mi abbia mai ascoltato. Ci credo perché sostiene che prima o poi, quando tornerò fuori, dovrò creare relazioni più sane, lavorare sulla dipendenza affettiva.

E infine ci credo perché credere mi viene semplice, perché in fondo non ho mai fatto altro nella vita.

Quando a lui ho spaccato quella bottiglia di Ceres in testa però io non lo sapevo di avere a che fare col gaslighting, certe cose non te le immagini nemmeno. Io mi sentivo soltanto come una che non regge più nulla. Come una che si sente stanca, di una stanchezza eterna e irreversibile, che di punto in bianco una mattina si alza, si guarda allo specchio dopo essersi lavata la faccia e si dice: “Mi sa che sei arrivata al capolinea. Allora, tesoro bello, scegli un’ultima cosa faticosa, finale e precisa. Poi falla”. E lì che avrei dovuto lasciarlo.

«Ma dove lo trovi un altro così – diceva intanto mia mamma – non ti mena, non ti tradisce… o almeno non più. Se gli fai troppe domande o scenate non ti sposerà mai, o almeno farà passare altri dieci anni. Gli uomini non vogliono seccature. Una donna certe volte deve chiudere gli occhi, girarsi dall’altra parte».

E io, che non mi giravo dall’altra parte, per dieci anni sono stata pazza mentre mi colavano davanti i suoi messaggi con le altre, i profumi delle altre, i lezzi delle altre. Pazza io, mentre spariva per notti intere e si faceva sentire il pomeriggio dopo:
«Dove hai dormito – chiedevo – dove».
E lui mica rispondeva. Mi guardava, sospirava e scuoteva la testa con compatimento. Così.
Pazza mentre passava ore in chat, e me ne stavo rannicchiata a letto ad aspettare una carezza, e le altre online erano sempre più belle di me, incapace di essere attraente, di rubargli uno sguardo anche fugace. Pazza se chiedevo di esserci ufficialmente nella sua vita con la sua famiglia, coi suoi amici a cui mi nascondeva. Pazza quando scoprivo i suoi tradimenti e mi convinceva che in quei momenti non stavamo assieme, che avevamo litigato, che ci eravamo lasciati. Pazza se piangevo, se stavo muta, se urlavo.
Pazza comunque.

Ho provato tutte le strade: quella della rabbia e quella della pazienza, quella del silenzio e quella del perdono. Ma portavano tutte verso la solita compagna pazzia: mi inventavo le cose, insomma. Non mi bastava mai nulla.

E io intanto nulla avevo.
Ché poi per qualche tempo ci ho pure creduto a questa storia della pazzia. Non mi fidavo più di me, dei miei giudizi. Forse è stato il periodo migliore, sono stata perfino felice. Perché alla fine aveva ragione mamma: non mi tradiva più davvero; ormai si era invecchiato, appesantito. Non era più in grado di correre dietro alle gonne, gli bastavano le donne virtuali, mi sostituiva così da qualche anno: quella in costume da bagno, l’altra col culo a mandolino, quella di trentotto chili, quella con la quarta abbondante. Ma ciò che mi è mancato di più sono stati i baci che non mi dava. Non si lascia una donna per anni senza un bacio, facendole credere che sia normale. Non si condanna una donna così, al non amore.

Quindi alla fine l’ho fatto: “Visto che sei pazza” – mi sono detta – “tanto vale”.
È stato un attimo. Ho visto la bottiglia accanto a lui, l’aveva tirata dal frigo con la tenerezza che si può riservare a un’amante. Se l’era sistemata vicina buttandole appena un occhio prima di scolarsela come aveva già fatto con le altre due. L’ho afferrata dal collo di vetro, ma non con rabbia, no. L’ho presa con dolcezza, delicatamente. Così come si può prendere un mazzo di fiori da offrire a qualcuno. Un dono confezionato con la carta lucida, il nastro di raso che si arrotola con grazia. E poi il gesto di avvicinarlo con lentezza, assaporando il gusto di un regalo scelto con cura.
E quindi giù, giù e forte con la furia che può dare soltanto la pazzia, giù e forte al centro esatto della sua testa, giù e forte perché non ci si sbagli, e non si lasci nulla al caso. Giù e forte perché ormai, tuo malgrado, dentro quell’istante feroce c’è stipata tutta la tua storia da pezzente dei sentimenti, da miserabile; da sudicia mendicante di baci.

“Donna fracassa il cranio al compagno per futili motivi”, hanno scritto e, ci mancherebbe, io la mia pena la pago, è giusto così. Però il motivo non è futile, ho scoperto. Il motivo è il gaslighting.
Perché alle cose è bene dargli un nome.

©Katia Colica

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