UNA SPECIE DI PESCE CHE NON SA NUOTARE
Arrivo dal mare come un pesce, una specie di pesce che non sa nuotare. La parte complicata di tutta questa storia ancora non la so, la parte complicata forse sono io che vivo, che sopravvivo ancora.
Si diceva che ci avrebbero messo un fucile in mano come avevano fatto con nostro cugino Armel, lo avrebbero fatto anche con me e mio fratello perché eravamo senza padre; e mamma non ci avrebbe saputo difendere. Era il 2011 e i generali di Gheddafi se lo presero che aveva solo nove anni.
Non l’ho più visto.
Quindi anche io e Moussa, fin dal Ciad, saremmo presto andati a combattere nella loro guerra civile ma noi facevamo i falegnami e non gli assassini. Noi non siamo buoni per uccidere la gente. Noi siamo bravi a costruire cose belle di legno, siamo bravi davvero se puoi credermi.
Quando presero Armel nostra madre pianse sette giorni di fila abbracciata a sua sorella. Noi non avevamo mai visto le lacrime di nostra madre perché lei era una donna che cantava spesso, cantava e sorrideva.
L’ottavo giorno però smise di piangere e disse ora basta, basta sul serio e ci preparò la giacca buona, due paia di scarpe e due di calze. Infine fece un debito con della brutta gente. Avevamo sedici e diciotto anni, io sono più piccolo di mio fratello Moussa.
Avevamo sedici e diciotto anni e non avevamo mai visto il mare.
Sono arrivato qui con altri cento che nemmeno ci parlavamo tanto eravamo impauriti; vivevamo quasi tutti vicino al deserto, che poi somiglia al mare per solitudine.
Mio fratello mi contava le giornate di afa, e fame, e sale sotto il cielo, lì sul barcone; sottraeva un dito della mano per ognuna che ne passava e mi diceva sempre che avremmo avuto fortuna. La fortuna benigna di chi non vuole ammazzare.
Adesso sono grande, è passato tanto tempo. Vendo fazzoletti di carta, accendini o quello che mi capita, quello che si può. Ho un letto mio, una borsa da viaggio vuota però nuova e ho anche un cellulare coi tasti che si illuminano. La sera mando un messaggio a mio fratello che sta in Francia, uno per ogni giorno che passa, e gli dico che sto bene, che mi sono sistemato. Con lui ci rivedremo quando avremo messo da parte abbastanza soldi per liberare nostra madre dagli aguzzini, se la troveremo viva, se Dio lo vorrà.
Ho diciannove anni e adesso sono grande ma mia madre mi manca uguale a quando ero piccolo. Mi vergogno un po’ a dirlo ma non fa nulla: tu scrivilo, scrivilo lo stesso che mi manca così.
© Katia Colica, 2015