
Il museo era enorme, conteneva decine e decine di aerei in posa come pachidermi presuntuosi, sembrava si guardassero in cagnesco per valutare chi avesse meritato l’allestimento più sontuoso, la rimodernata più efficace. Uno aveva fatto la guerra, tanta guerra, ed era stato ritrovato in mille pezzi tra macerie desolate, in mezzo alle carni dei piloti di altri pomposi veicoli alati, ricostruito e messo a
lucido da sapienti mani artigiane ma alcune parti usate per l’ala destra non erano originali, appartenevano a un altro veicolo simile, precipitato poco distante, comunque gli calzavano a pennello.
Un altro modello era troppo bello, lucido e spavaldo per aver fatto anche solo un’ora di volo, forse era soltanto un modello, la Naomi Campbell dell’aviazione militare, buono solo a farsi guardare.
Uniformi adagiate su manichini in teche scure, affiancate da supporti pieni di informazioni e monitor che trasmettevano documentari sulle importantissime personalità che le avevano indossate. Espositori pieni di oggetti, le bussole che ti salvavano indicandoti la direzione nelle notti di plastica senza stelle, il coltello
che squarciava carni animali da mangiare e umane da eliminare, il conforto di una pipa, la foto della fidanzata, la firma incerta del figlio sulla lettera al soldato senza nome.
Odore di officina, olio e motori, vaghissimo, non nascosto ma piuttosto confuso dalle emanazioni odorose dei deodoranti a spruzzo continuo. Riverberi incostanti provenivano dai finestroni
dell’hangar, si riflettevano a sorpresa su certe superfici, sui portelloni dei velivoli lucidati costantemente per gratificare l’occhio e la fotocamera dei visitatori. Percorsi suggeriti ma non obbligati in
uno spazio ampio, ingombro delle vestigia belliche di un passato rispolverato a dovere, persino i primi prototipi, somiglianti più a un complicato aquilone che a un mezzo di trasporto, sembravano
vagoni di un moderno luna-park tematico.
Le scarpe da ginnastica latravano sul pavimento liscio, mi rimiravo nel riflesso delle teche e mi vedevo fuori posto, piumino corto, jeans con gli strappi finti, scarpe dalle suole uggiolanti, il tonfo
sordo di un tacco sarebbe stato più adatto. Il mio viso si sovrapponeva alla foto di un famoso pilota che aveva affrontato importanti battaglie, tornando sempre vivo da acrobatiche figure in cieli nemici, a volte malconcio, sul suo aereo che probabilmente guidava con la stessa disinvoltura di un moderno automobilista in autostrada. A giudicare dal viso poteva avere metà dei miei anni, lo sguardo ne dimostrava molti di più.
Attraversai la cattedrale della guerra e in lontananza scorsi l’oasi di un punto di ristoro, un corridoio colmo di gadget e libri sull’aviazione decomprimeva il visitatore e lo predisponeva a un
rapido ritorno al tempo ordinario. Il piccolo bar era stato ricavato in una sorta di rientranza all’interno della struttura museale, delimitato da un muro di vetro oltre il quale si poteva continuare ad ammirare
il passato, consumando un pasto su piccoli tavoli troppo vicini tra loro. Al centro dell’area ristoro un bancone circolare abbracciava l’ambiente, come una giostrina chiassosa di luci colorate, scritte al
neon, bottiglie posate in bilico come fossero abbandonate in ordine casuale. Ero intenzionata a godermi un caffè senza il fastidio della vescica piena, percorsi il corridoio con lo sguardo e individuai la toilette.
Ebbi l’impressione di entrare in un ambiente sterile, un getto di sostanze disinfettanti mi avrebbe travolta, uomini in tuta anticontaminazione e casco gigante sarebbero comparsi per trascinarmi in un laboratorio di ricerca. Non ero abituata a tanto ordine, perfetta concezione dello spazio, luci soffuse, un profumo
non identificabile, nessun fiore, detergente o diffusore, solo un’essenza di perfezione che aleggiava nell’aria. Due porte aperte, erano i servizi igienici. Quale meraviglia! sembrava il bagno di un piccolo appartamento, grande abbastanza per non dover sbattere come una falena in una lampada da esterni. C’era persino un bidet, qui si gioca coi sentimenti di una donna. Di nuovo quella sensazione
di una pulizia quasi solida, le superfici brillanti, il colore dei sanitari non era il solito bianco nonna-Ace ma una rassicurante sfumatura di caffellatte, l’eleganza. Il cuore mancò un battito, sulla parete destra
un dispenser di carta copri water con un grande disegno esplicativo, chiarissimo, rassicurante, diceva: siediti, serena, nessuno ti farà del male, non un germe, non un batterio, la cistite è un problema del
mondo di fuori, qui sei al sicuro. Il mio intestino produsse fitte di entusiasmo, convinto fino a pochi istanti prima che avrebbe dovuto attendere ore per potersi liberare, già da tanto mi lanciava segnali
d’allarme. Commossa, con religiosa delicatezza, gustando il momento, adagiai il presidio sul water, comodissimo, devo segnarmi la marca. Ogni fibra del mio corpo si rilassò, mi gustai quella piacevole sorpresa, un dono inatteso, e con discrezione, cautamente, il fagotto venne deposto nel nido. Sollevata e serena mi ricomposi, strato per strato, senza fretta, lentamente, troppo lentamente. Udii dei passi, tacchi pesanti, gambe sgraziate, e a seguire altri passi, smorzati, suole di umile gomma come le mie, nessun
chiacchiericcio, mi immobilizzai. Era una situazione in cui devi decidere in fretta: esci dal bagno a testa bassa, sfuggendo agli sguardi e speri che l’effetto sorpresa impedisca la memorizzazione del tuo aspetto oppure decidi di restare all’interno, in attesa che la toilette torni libera, per uscire insieme agli imbarazzanti effluvi prodotti. In un attimo registrai l’informazione che non avevo sentito alcun ronzio entrando, le ventole non si addicono a un bagno elegante, ma forse c’era un presidio silenzioso che non mi era dato vedere? Il metodo empirico è sempre il più efficace, trattenni il fiato per alcuni secondi e silenziosamente soffiai fuori l’aria per poi annusare la fragranza della stanza. Nessuna ventilazione, potevo
esserne certa. All’esterno le due donne si scambiarono qualche parola indistinta, erano insieme, quindi era esclusa l’ipotesi che una delle due, irritata per l’attesa, scegliesse di lasciare la toilette per tornare più tardi. Decisi comunque di aspettare, magari la donna coi tacconi aveva solo accompagnato la signora casual e se ne sarebbero andate senza farsi domande. Accostai l’orecchio alla parete divisoria, proprio sopra il dispenser di copri water, udii un leggerissimo tramestio, uno stillicidio di pochi secondi, pensai con acredine a quanto fastidio mi stesse infliggendo solo per fare due gocce. Il familiare strusciare di un pantalone leggero, le suole scivolavano leggermente emettendo un piccolo vagito, io continuavo ad
ascoltare con lo sguardo rivolto al soffitto. Mi sembrava una bocchetta d’emergenza, con la classica lucina rossa che si accende a intermittenza, era sicuramente un rilevatore di fumo, o no? Ero in una base militare, circondata da gente in mimetica, potevo forse supporre che nei bagni ci fossero telecamere? L’idea era semplicemente assurda, ma ero chiusa lì dentro a spiare le mosse di una donna in scarpe da ginnastica che urinava, cominciavo ad avvertire un senso di pericolo. Le due donne potevano riunirsi e
uscire insieme dopotutto. La lucina rossa occhieggiava dal soffitto, spostai lo sguardo su tutto il perimetro e vidi un secondo oggetto dal lato opposto, non capii cosa potesse essere, sempre più ansiosa
di confermare che l’idea di essere spiata in un bagno pubblico fosse assolutamente ridicola. La donna aprì la porta, pochi passi leggeri, qualche parola con l’amica, tutto fu coperto dal getto dell’acqua.
Mancava qualcosa, ma scossa dall’idea delle telecamere mi sfuggì.
Parlottavano, forse si chiedevano se c’era qualcuno dietro la mia porta chiusa. Se fosse entrato qualcun altro, magari altre due donne, sarebbe stato disagevole avere a disposizione un solo servizio, qualcuna avrebbe chiesto, ma quello è fuori uso? Non so signora, l’ho trovato chiuso. Fammi provare. Manate, spinte, avrei dovuto prepararmi a dichiarare la mia presenza? Inoltre c’era la possibilità che una delle donne fosse una militare e che chiedesse a un addetto delle pulizie il motivo di quella situazione. Ma se avessi urlato “occupato!” le donne che erano arrivate per prime avrebbero trovato sospetto che fossi chiusa dentro da tanto tempo, o si droga o sta male e quindi bisogna chiamare aiuto. Possibile che nessun congegno si mettesse in moto per arieggiare silenziosamente la stanza quando era occupata? Un sensore intelligente che comunicasse a un aggeggio, hey accenditi, donna su cesso, ripeto, donna su cesso. Solo quei due affari sul soffitto, sempre più simili a telecamere nella mia immaginazione galoppante, la lucetta rossa come quella di una vecchia telecamera analogica che ti indicava “rec”, sto registrando, balla, canta, esibisciti, io sono qui che filmo tutto. Riprovai l’esperimento, respirai per qualche secondo col naso nel giubbetto e poi fuori, esplorai l’ambiente come un modulo lunare appena arrivato sul nostro satellite. L’aria restava pestilenziale, aggravata da un sudore da stress acido, quello che
serviva ai nostri pelosi antenati per avvisare gli altri ominidi di un pericolo mortale, alzate la clava amici, sono inseguita da un enorme coso vorace e zannuto.
Rimasi immobile e concentrata, dopo quel getto d’acqua mi sembrò tutto silenzioso fuori, appoggiai le dita alla serratura per farla girare molto lentamente, alzai gli occhi verso la telecamera, forse accennai
un leggero sorriso: non potete capire voi in sala operativa e non ve lo spiegherò mai. Già, ma se mi stavano osservando, ciò che vedevano era una strana donna che continuava a guardare verso le telecamere, si copriva il volto facendo chissà cosa sotto il giubbetto e restava chiusa dentro senza far altro. Era tutta una fantasia dovuta all’irritazione, nulla di più, mi dicevo, ma non riuscivo più a guardare il soffitto, pensavo a quella squadra che probabilmente stavano inviando a evacuare l’area in silenzio, non spaventate l’attentatrice. Sentii la signora coi tacchi muoversi, era ancora lì.
Forse un militare le faceva segno, un dito sulle labbra e l’altra mano, palmo in alto e dita che si aprivano e si chiudevano, per dire: uscite tutte senza dire una parola. Eppure i passi non sembravano
allontanarsi, no, la signora coi tacchi era entrata nell’altro bagno, manovra diversiva, mi stavano tendendo una trappola. Una voce femminile, perfettamente udibile “ti aspetto fuori”. Non era rivolta a me, volevano che pensassi che si rivolgesse alla signora coi tacchi, così sarei uscita e mi avrebbero presa, poi vaglielo a spiegare a una squadra di militari coi fucili spianati, quelli che ho visto nelle teche, che sono una persona innocua se escludiamo l’odore delle mie feci.
La donna coi tacchi produsse un flusso corposo e di notevole durata, quindi è questo il piano per confondermi le idee? Si risistemò velocemente ciò che strusciava come una gonna e scaricò.
Provai una sensazione di urgenza, come se dovessi capire qualcosa che mi era sfuggito, un particolare che poteva salvarmi da quella situazione, ma cosa? Trovai il coraggio di lanciare un’altra occhiata alle telecamere, cosa era cambiato? Nulla, la lucina rossa lampeggiava sul REC, come prima, ero ripresa e immortalata per il tribunale militare, c’erano le prove che stavo facendo qualcosa di losco e certamente illegale, con la faccia nascosta dentro il giubbetto. Cosa allora? Tacchi, scroscio lungo, cistite? Gonna, cosa?
Capii. Sollevai il viso verso la telecamera, provate a prendermi adesso, con aria di sfida aprii velocemente la porta, la donna coi tacchi non era ancora uscita, avevo pochi secondi. La casual con le scarpe da ginnastica non ha mantenuto la parola, invece di aspettare fuori dalla toilette, come aveva preannunciato, si era fermata dentro, appoggiata col sedere sul lavandino armeggiava col suo telefonino.
Mi squadrò con aria sorpresa, ma guarda, sono il genio che vive nel cesso, e allora? Mi fissava mentre uscivo trafelata circondata da una nube di miasmi, col sudore acido che avvisava folle di antenati di
fuggire e nascondersi nella foresta, intanto si schiudeva l’uscio dell’altro bagno e si palesava una donna dai capelli corvini, sui sessanta, vestita di pelle e stivali da rodeo. Ero sotto il fuoco incrociato di due paia d’occhi schizzati fuori dalla loro sede come spinti da molle. Puntai il dito sulla casual che aveva perso la presa del suo telefonino lasciandolo cadere a terra e dissi soltanto “io lo so e tu lo sai: quando fai pipì non scarichi, chiudiamola qui, ok?”
©Ale Ortica