
Così, è qui che è successo. In piedi sul sagrato della chiesa, i capelli scuri arruffati dal vento, Aldo si guarda intorno, stretto nella giacca grigia troppo leggera, nei jeans troppo sottili, i piedi già gelati nelle scarpe di tela. E gli avevano detto che a Torino ormai era primavera. Brr! Si vede che qui hanno un’idea diversa che a Roma, della primavera. Giù, al ventisei aprile si va in maglietta e si mangia il gelato, scaldandosi la schiena al sole. Qui solo l’idea di avvicinarsi a un gelato gli aumenta i brividi. Che poi il sole per esserci c’è, ma è quel sole malaticcio da città del nord. Se invece della giacchetta si fosse portato un bel piumino imbottito, non sarebbe stato male. Dicono che è il vento delle montagne, che viene giù dritto dalla Val di Susa, attraversa Via Garibaldi e Piazza Castello, in Via Po prende velocità, passa in un lampo piazza Vittorio e il fiume e si scarica giusto giusto sulla sua pancia. E va già bene che non piove.
Guarda giù dalla scalinata, verso la striscia verdastra del fiume con la linea grigia obliqua dei Murazzi che scende a lambire l’acqua, la guglia della Mole che svetta tra i coppi rossi e gli abbaini.
La foto ce l’ha in tasca, dentro una custodia di plastica rigida da CD perché non si rovini. Dopo tutto è un reperto storico.
È in bianco e nero, con la linea di troppe piegature che la taglia in due. Il nonno l’aveva ritagliata da un giornale, sul retro si legge ancora qualche riga sugli ultimi combattimenti in città. Sarà stata La Stampa, ovviamente. Però all’epoca c’era anche la Gazzetta del Popolo. Chi lo sa.
L’immagine ce l’ha precisa in mente, ma già che c’è la tira fuori dalla tasca, la regge spostando di continuo gli occhi a confrontare la carta ingiallita con il paesaggio reale.
La mitragliatrice è l’elemento visivo che domina la scena, chissà se per scelta precisa o per uno di quei colpi di fortuna che a volte capitano ai fotografi dilettanti. Comunque è proprio dove si trova lui adesso, sul sagrato della Gran Madre.
Dell’arma si vede quasi solo la canna, con il caricatore e il treppiede, ma il suo prolungamento ideale coincide esattamente con le linee prospetticamente convergenti del ponte, attraverso una Piazza Vittorio deserta e spettrale, fino giù in fondo all’infilata di Via Po. Come fosse stata piazzata lì apposta per indicare. La linea nera della canna calamita lo sguardo, spinge a guardare nella direzione suggerita. Parla, in un certo senso.
Dice guardate bene – vardé bin, fieui, al nonno piaceva, parlare in piemontese, anche se a Roma nessuno lo capiva – guardate bene, ragazzi, che se ai tedeschi gli salta in testa di farsi vedere, di qua facciamo il tiro al piccione.
Ammesso che fosse vero. A quanto ha letto, non è che i partigiani fossero poi così ben armati, neanche alla fine, anche scontando i lanci degli Alleati e le armi abbandonate dai fascisti in fuga.
Chissà che portata aveva, la mitragliatrice. Se era in grado davvero di arrivare a colpire fino a Via Po, o almeno fino al centro della piazza. Boh. Scrolla le spalle. La sua ignoranza in fatto di armi è pari solo alla sua curiosità. E curioso lo è davvero, oh, sì.
Se no se ne sarebbe rimasto tranquillamente a Roma – al caldo – invece di buttarsi su un treno sgarruppato che doveva arrivare in poco più di sette ore e invece ce ne ha messe quasi nove per non si sa quale guasto. Sospira, tirandosi sul collo il bavero della giacchetta.
D’altra parte, l’aereo costava troppo, e il frecciarossa siamo lì. Quindi, il suo bell’Intercity se lo è goduto tutto, guasto all’aria condizionata incluso. Soffrendo il caldo a Roma e in treno, e qui il freddo.
Chissà che tempo faceva, quel ventisei aprile. Il nonno non gliel’ha mai detto, oppure non se lo ricorda. Dalla foto sembra una bella giornata, o almeno non brutta. Una serena mattina di primavera. Che era mattina si capisce dalle ombre. Non pioveva, in ogni caso. Se c’era il vento anche allora, dalla foto non si vede. Quello che si può vedere, sono i buchi dei bombardamenti su qualche tetto, le macerie. Un camion militare rovesciato in mezzo alla piazza e la colonna di fumo sulla destra, in direzione della Mole.
Alza gli occhi verso gli abbaini dell’edificio d’angolo, sopra quel bar che ha l’aria di essere da fighetti, su fino alle tegole rossastre. Gli piacerebbe sapere qual era, la mansarda da cui sparava il cecchino.
Dev’esserci del vero, nel detto popolare per cui se non è la tua ora, non ti succede niente. Da come la raccontava il nonno, stava proprio qui con gli altri partigiani, dietro la mitragliatrice della foto. Chiede una sigaretta, il pacchetto che uno gli lancia gli sfugge dalle mani e lui si sposta di scatto per recuperarlo. È così, che il colpo gli sfiora solo la tempia, invece di passarlo da parte a parte. Aldo se la ricorda bene, la cicatrice, una striscia in rilievo appena nascosta dai capelli ormai grigi che il nonno gli lasciava toccare adagio, con la punta emozionata del dito. La più amata delle storie partigiane del nonno. Quando la storia che hai studiato a scuola si incrocia con la vita.
Un’altra storia era quella del nome. Del loro nome, di tutti e due, perché anche il nonno si chiamava Aldo. Nonno Aldo diceva che per il nome lo prendevano in giro, i suoi compagni partigiani. Dì ‘n po’, Aldo, ma tl’as dij bei sant an Paradis, ti, che l’an pià ‘l tò nom per la parola. Dei bei santi in Paradiso, perché la parola era la parola d’ordine che il ventisei aprile ha dato il via all’insurrezione: ‘Aldo dice ventisei per uno’. Che voleva dire: attaccare all’una di notte del ventisei. Questo gliel’ha poi spiegato lui, il nonno.
Lascia vagare lo sguardo sullo scorrere sincopato delle auto regolato dal semaforo ai margini della piazza. In tanti anni è la prima volta che viene a Torino, ma dopo averne tanto sentito parlare gli sembra di conoscerla, almeno un po’. A lui piaceva ascoltare, e al nonno piaceva raccontare, con il grande rimpianto di non esserci più tornato, dopo la guerra.
Prima il trasferimento a Roma per lavoro, poi l’incontro con quella che sarebbe diventata la nonna, poi i figli. Però, almeno una volta o due in tanti anni, una capatina al volo avrebbe anche potuto farla. Non per i parenti, certo. Anzi, a pensarci bene, forse è proprio per questo che ha lasciato perdere. Parenti serpenti, davvero. Anzi, nel suo caso, fratelli coltelli.
La zia Livia, per esempio, la sua sorellina, più piccola di sei anni. Aldo non ha mai saputo perché avevano litigato, ma qualcosa sotto c’era, se si telefonavano sì è no a Natale e basta, per degli auguri freddi in punta di lingua che neanche col postino.
Con zio Fonso poi, come lo chiamava il nonno, che sarebbe Alfonso, peggio che mai.
Con lui neanche gli auguri. Non si sono più visti, proprio. Né sentiti. Finché Fonso è morto.
Poco da fare, quando ci sono di mezzo i soldi, non ce n’è, altro che fratelli e sorelle. E per quel niente di eredità, un fazzoletto di terra nel Canavese lungo il torrente buono solo per le canne, e una cascina decrepita dove passavano le estati da piccoli, hanno rotto e hanno smesso di parlarsi, punto. E per più di cinquant’anni. Mah.
Così, la sua cugina di Torino lui più o meno sa solo che esiste, e basta. Neanche che faccia ha, si può dire, se escludiamo qualche foto. Mai vista in faccia dal vero, neanche una volta, perché al funerale del nonno – dello zio, per lei – a Roma non è venuta. Zia Livia e zio Fonso invece sì. Lei con quell’aria sussiegosa da gran dama decaduta e le labbra strette, ancora una bella donna, i capelli elegantemente grigi e la figura slanciata di famiglia. A guardarsi intorno con gli occhi di chi chiaramente si sente in terra di barbari.
Mai travajà ‘n dì, diceva il nonno. Mai lavorato un giorno in tutta la sua vita, chissà se è vero. Certo, lo stile è quello e i calli alle mani di sicuro non li ha mai avuti, anche quando il nonno si spaccava la schiena per mantenerli, lei e quell’altro, Fonso, che più che altro era interessato alle carte e alle donne. Chiamalo scemo.
Invece, scemo si deve essere sentito lui, il nonno, a fare il muratore da scuro a scuro per poi tornare a casa e trovarli lì tutti e due, lei che si lamentava – l’unica cosa che sapeva fare bene, diceva il nonno – e lui che aveva appena finito di fare colazione e si preparava con calma a un’altra notte di bagordi nel primo dopoguerra torinese. Certo si può capirlo, nonno Aldo, se la prima occasione l’ha acchiappata al volo ed è saltato sul treno per Roma senza voltarsi indietro.
A zia Livia però un po’ di soldi per tirare avanti ogni mese li ha sempre mandati, questo bisogna dirlo. A Fonso, no, ma lui in qualche modo pare se la cavasse sempre, almeno fino a quella tragica notte.
Non si è mai saputo se era davvero ubriaco come dicevano ed è solo scivolato, o se ce l’hanno spinto, nel Po. Proprio all’altezza di quei Murazzi che si intravedono laggiù. Certo, di mariti che gli avrebbero volentieri dato una mano – a scivolare – ce ne doveva essere una discreta lista. Perché era un bel tipo, Fonso. Capelli neri lisci e imbrillantinati come usava allora, sorriso sornione con quello sguardo obliquo alla Rodolfo Valentino de noantri, la sigaretta sempre tra le dita. C’è da crederci, che avesse un buon successo con le donne.
Almeno non ha lasciato figli. Conosciuti, avrebbe detto lui strizzando l’occhio furbetto.
Zia Livia invece un figlio l’ha lasciato. Anzi, una figlia. L’unica volta che ha fatto qualcosa che le è costata fatica senza avere niente in cambio, diceva il nonno, perfido.
In questi anni qualche volta gli è anche venuta, la curiosità di vederla, sua cugina Consolata. Che non è un nome meridionale, come lui da ignorante pensava, ma torinese doc. Già, il famoso santuario. Chissà com’è, adesso, la piccola. Piccola, insomma. Ha trentacinque anni, quattro meno di lui. In una foto di tanti anni fa trovata tra le cose del nonno ha le treccine e fa il broncio. Foto su Facebook non ne ha volute mettere, gli ha detto quando si sono scritti la prima volta. Non le piace l’dea che chiunque o quasi possa andare a spiare nelle sue cose. Non è proprio così, ma non gli è parso il caso di sottilizzare.
Mentre cerca di non pensare alla raffica gelata che gli si insinua su per la schiena, butta l’occhio verso il basso e la vede. Dev’essere lei per forza, agita la mano e sorride. L’ha riconosciuto perché lui, invece, le foto su Facebook le ha messe.
Mentre il vento le ingarbuglia i capelli si muove svelta verso la scalinata, alta e sottile come sua madre. Ha la borsa a tracolla e un piumino rosso mattone, che ha l’aria di essere bello caldo. Beh, lei è cresciuta qui. Lo sa, come vestirsi. La prossima volta, farà meglio a chiederle consiglio.
©Euro Carello, 2014 (tratto da Letti a undici piazze – Graphot Editrice)
© FOTO Archivio ISTORETO