L’ultimo paio
Quella donna è una vecchia fresca e rosea nei suoi ottantacinque anni. Cammina dritta, a testa alta. A Malcagnac, vicino Luzon, nel mausoleo per cui ha scelto i marmi neri. Finalmente lui è tornato a casa e ora riposa. Molto più giovane di lei in eterno.
I fotografi sono pronti, maledetti.
Non è intimidita, abituata com’è a governare il popolo, feroce. Ha ammassato ricchezze. Possiede gioielli di valore immenso. I figli sono stimati rappresentanti del governo di quel paese che lei ha massacrato con la compiacenza dei governi occidentali. Ha perduto tutto. Ha riavuto quasi tutto. Era la più bella tra le donne filippine, questa vecchia fresca e rosea dal viso tondo e cattivo. Non è alta ma lo era abbastanza per far chinare la testa agli altri. A tutti. Era bellissima e non lo è più. Ha sposato l’uomo che amava, quello che ora è nella teca. Lo ha tradito sempre.
Parlami, sembra chiedere lui con il sorriso che gli ha donato l’imbalsamatore.
Ti parlo, risponde lei attraverso le teca. Vorrebbe romperla e fondersi con la cera. Lo ama ancora. Lo ama anche così.
E’ vestita di rosso, come si addice a una vedova di quasi novanta anni. Ti aspetto da venticinque, pensa lei. E ancora non sei venuto a prendermi.
La morte è lenta, pensa lui. Tu divertiti.
Lei sorride. Ho perduto tutto. Processata come una ladra di pentole del peggiore mercato di Sarrat. Poi assolta ma intanto tutti vedevano e frugavano e volevano sapere e portavano via.
Le mie scarpe. Hanno rubato tutte le mie scarpe. Il cuore le perde un battito.
Tu sai, mio caro, cosa erano per me.
Lui annuisce dal profondo dell’imbalsamazione e sospira.
Venezia, Firenze, New York, Milano. Negozi aperti alle due del mattino per servirla lontano da occhi plebei. I migliori del mondo avevano il calco del suo piede e lo tenevano in cassaforte. Che belle, diceva lei. Era come una bambina, la stessa che non aveva avuto un paio di scarpe fin quando non aveva capito che poteva averne migliaia. Quale colore, chiedevano loro. Tutti i colori. Quale tacco. Tutti i tacchi. Quale pellame. Tutti i pellami.
I direttori dei negozi annuivano disfatti alle sei del mattino, organizzavano turni. Lei, grata, ordinava Beluga e Dom Perignon e li rifocillava. Prima di infilare l’ultimo paio, che doveva sempre essere rosso.
E poi me le hanno tolte. Tu dimmi se è possibile. Scandisce lei alla salma. Rubate. Erano tremila paia, in sezioni, sistemate razionalmente su scarpiere elettriche e girevoli, mi bastava digitare il numero con cui erano catalogate. Altrimenti a cosa servono le brave archiviste della Sorbona. Senza scarpe da tenere ordinate avrei potuto fare tutto da sola, no?
La salma giace, si è confusa e ha dimenticato l’ultimo pensiero, che era senz’altro per lei, per la sua unica amata. Era così bella. Ora il faccione luna piena gli sorride attraverso il vetro della teca. Il tempo crea mostri. Meglio restare con gli occhi chiusi in eterno, a pensare com’era.
Le hanno messe in un museo, le mie povere scarpe. Tu riesci a dirmi quanto cattivo gusto ci sia, nell’esporre così la vita degli altri?
Lui sospira spazientito.
Lei inarca un sopracciglio.
Rompi la teca, Imelda. Portami via, te ne prego. Buttami in un fiume, che io possa unirmi alla terra che scorre sul fondo e rotola al mare. Fa che pesci affamati si riempiano lo stomaco ignorante con questa plastica e che ne muoiano tra mille spasimi. Come i nostri nemici, ricordi? I maledetti comunisti. A noi non importava che morissero.
Finalmente un ricordo piacevole.
Lei unisce le labbra a cuore, bacia il vetro come una bambina un po’ arrabbiata.
Ferdinand, ora devo andare. Non fare scenate.
Quanti anni ha lui? Sussurra la salma spossata.
Lei tace. Il respiro appanna leggermente il vetro che ha appena finito di baciare. E’ ancora una bella donna. Sorride. Il rossetto indelebile ha una tenuta perfetta, nessuna traccia.
Dimmi almeno che scarpe calzi oggi.
Lei fa mezzo giro sulle Louboutin ed esce senza dare risposta.