FERRO AL CUORE
Nel pomeriggio di un mese freddo, lui entrò nella mia cella. Aveva addosso un odore che non avevo mai sentito prima. Feci bene attenzione a non muovere un muscolo. Lo accompagnava sorella Irene, riconoscibile dal profumo di lavanda. Lui mise giù degli attrezzi pesanti, che fecero un rumore metallico contro il pavimento. Per farmi coraggio, io cercai il muro davanti alla mia faccia. Le mie unghie grattarono la superficie ruvida. Avevo arti deformi ed ero cieca. Era stato ovvio per i miei genitori, ricchi possidenti a cui necessitava una figlia sana da maritare, abbandonarmi portandomi al convento. E se non mi avesse intercettata, appena nata, il prete del castello, dandomi il battesimo, di certo mi avrebbero annegata nel primo fosso, come un gatto. Così si usava.
Io ero Margherita: un grumo di dolore in un letto. Lì trascorrevo quasi tutta la giornata. Lì mi portavano il pochissimo cibo che riuscivo a mangiare, il bicchiere d’acqua che ero capace di bere, e il conforto dell’ostia consacrata. Solo per Natale, accettavo che le altre sorelle mi sistemassero in una lettiga e mi trasferissero al piano di sotto. Non era pensabile che potessi occupare una stanza diversa da quella che avevo scelto per il mio martirio. Era un luogo privo di qualsiasi conforto, ma che addirittura ci piovesse dentro era intollerabile: così mi disse la reverenda madre.
All’ultimo piano del convento delle Murate, la sera prima un violento temporale aveva infatti finito di disintegrare la piccola finestra, a cui mai nessuno aveva prestato attenzione negli ultimi cento anni. Se ne era accorta proprio la superiora, al piano di sotto, quando l’acqua che era entrata nella stanza aveva a tal punto bagnato il pavimento, da finire, nottetempo, dritta sulla sua testa. La mattina seguente, constatato il disastro, aveva pensato al da farsi. Non era previsto che alcun uomo potesse entrare nel convento, a parte il parroco, il vescovo e il vecchio garzone. Quest’ultimo, sempre e soltanto osservando la regola del silenzio.
Non era soprattutto previsto che, entrando nella stanza all’ultimo piano, qualcuno potesse vedermi. Ma i lavori andavano fatti.
Nonostante ciò, era impossibile che potessi essere disturbata né distratta dalla mia condizione speciale. Il popolo di Città di Castello, passando davanti alla mia finestra, già in quei giorni si inginocchiava, a causa delle voci che mi facevano santa, capace di miracoli del corpo e dell’anima. Pare che così avesse lasciato intendere perfino Ubertino da Casale, che, qualche anno prima, si era intrattenuto con me su questioni teologiche, attraverso una grata e con speciale dispensa papale. Si chiedevano tutti come potessi essere così saggia, se non avevo studiato. Come potevo non esserlo, se le parole, che avevo strappato dai breviari e dai messali, e ricomposto nel buio della mia mente, erano tutto ciò che avevo al mondo?
Quando il profumo di lavanda se ne fu andato dalla mia stanza, io sentii in modo netto l’altro odore. Chiunque fosse quell’uomo, infatti, si era avvicinato al letto per osservarmi. Forse voleva solo accertarsi del prodigio, come tutti. Una storia da raccontare e da tramandare, la mia: quella del povero mostro santo, conosciuto in prima persona.
Nel resto della giornata, e per molti altri giorni ancora, ci furono solo il rumore del martello, che infilava chiodi intorno alla vecchia finestra, e quello del suo respiro affaticato. Seguivo uno e l’altro. I suoni disegnavano nell’aria figure di cose che non conoscevo. L’odore del vecchio legno percosso, invece, mi portava indietro, in un tempo che non avevo mai vissuto, quello in cui gli oggetti erano nuovi, le stanze profumavano di fresco, e la gente era felice. Smisi così per colpa sua di pensare a dio e cominciai a immaginare tutte le cose che avevo perduto. Tutte quelle che c’erano nel mondo e che non avrei mai potuto avere. E Dio divenne il mio nemico.
Nei giorni che trascorse dentro la mia stanza, lui non fiatò mai. Ebbi però l’impressione che prolungasse il lavoro, per poter restare ancora in compagnia del suo idolo. Voleva un miracolo, aveva certo una grazia impossibile da chiedere, forse una moglie sterile o un figlio scemo, a cui far venire un barlume di intelletto.
Passammo così alcuni giorni in un silenzio carico solo del rumore prodotto dagli oggetti. Per me adesso c’erano moltissime storie da inventare restando immobile. L’uomo cominciava di buon mattino, aggiustava, apriva, incollava, metteva ad asciugare. Forse aveva dimenticato qualcosa di utile. Allora partiva e ritornava. Poi la sera andava via. Immagino che abbia trovato molte scuse per prolungare quella riparazione e poter restare vicino alla santa. Poi finì il suo lavoro e non tornò mai più. Lui, come nessun altro.
All’età di trentatre anni io morii e il mio corpo incorrotto venne trasferito in un teca di vetro, dentro la chiesa di San Domenico, dove si trova tutt’ora.
Mi tolsero solo il cuore, per farne reliquia da re. Miracolo: vi trovarono dentro tre chiodi.
Naturalmente, pensarono fossero quelli della passione di Cristo.
© Roberta Lepri, 2016