Felici come una Pasqua
La dichiarazione di guerra mi venne consegnata per sms un sabato santo, intorno alle 18. Stavo preparando i cappelletti, il suo piatto preferito. A mia sorella avevo dato il compito di fare il brodo con il cappone, la lingua, lo spicchio di petto. Io mi sarei occupata anche della salsa verde e dell’insalata russa, d’obbligo per accompagnare i bolliti. Ricordo di aver pensato che strano, che strano che non mi abbiano ancora fatto sapere quanti saranno. Magari anche lei verrà. In ogni caso, meglio abbondare: lo avevo pensato guardando compiaciuta la duecentesima pallina di carne messa sul quadrato di sfoglia che stavo per chiudere nella forma così elegante e gentile che la nostra tradizionale assume quando è pasta fresca. Pronta per chi. Pronta per cosa. Ah, già. Pasqua. Nostra madre ci teneva che per le feste – sempre ma soprattutto per le feste – ogni cosa fosse fatta bene. Est modus in rebus, diceva. Proprio così: un modo giusto per fare le cose. Che naturalmente era sempre il suo. Impeccabile, fino al giorno in cui era morta. E dunque sempre, senza una smagliatura, tutta la vita. A parte il carattere con cui ci aveva inchiodati tutti quanti al muro ma di quello nessuno può dire: doveva essere così, perché fosse fatto bene. Un carattere è un carattere. Specie se chi ce lo aveva non c’è più.
Certo che lo avevo visto il messaggio, lo avevo visto sul display, che si era illuminato anche se il telefono era in pausa. Cominciava con: mi dispiace; io però con le mani infarinate non potevo leggerlo subito per intero. Avevo perciò scacciato via quel pensiero come una mosca, lasciando che il cuore recuperasse il suo battito regolare, dopo avere perso un paio di colpi. Ho preferito mettere tra me e le sue parole il tempo necessario per l’illusione. Comunque lo sapevo. E’ naturale. E’ ovvio che quell’uomo arriverai a perderlo. E questo ti ucciderà, perché le cose a cui teniamo possono ucciderci quando se ne vanno. Solo che lui non era una cosa.
Ricordo le sue parole. Se pur piccola, siamo una famiglia, diceva. Siamo rimasti noi, come un grappolo d’uva, qualche acino di figli e nipoti, un solo genero e poi io, a tenervi uniti tutti quanti. Il vecchio albero.
Io per me non avevo mai chiesto niente, sono fatta per risolvere i problemi in autonomia. E dunque non credevo di essere un peso: è quello che mi ripeto ogni giorno, per cercare riposo nel cuore. In alternativa, so che il senso di colpa potrebbe accartocciarmi. Non domandavo, dunque, però mi faceva bene quando il giovedì preparavo un pranzo speciale e lui veniva da me. A tavola parlavamo di grandi problemi umani e di come risolverli. Lui teneva sempre in considerazione i miei viaggi sulla luna senza ritorno: io ero la sognatrice, qualità indispensabile per la scrittura. Fatta al contrario, rispetto al resto della famiglia. Sempre un po’ altrove con la testa. Dovresti essere felice, diceva, di essere fatta così. E io avevo allora l’impressione che qualcuno a me tenesse nel modo giusto, ed ero certa che sarebbe stato per sempre. Era bellissimo essere capita. A parte quella vocina che mi sussurrava che non sarebbe durato. Era il mio povero demonio personale: un guastafeste che a quel tempo era facile cacciare in cantina, in mezzo ai ricordi che non si devono ricordare e alle cose ingiuste da non fare mai.
Certo capivo, e capisco, la sua solitudine. La provo, è parte di me. E’ quella cosa che, quando porto fuori il cane e alzo lo sguardo alle stelle, mi fa sentire bene e felice di essere viva. Allora muovo gli alluci dentro alle scarpe, respiro a fondo e penso che sono, lì, in quel preciso momento. Sto vivendo e questa è la mia priorità. Non so se essere in due potrebbe farmi stare meglio: ho perso il ricordo di questioni di questo tipo. Però lui diceva di stare bene nella mia stessa maniera, capirai, dopo trenta anni con tua madre. Ogni tanto un’amica, è giusto. Tante amiche. Fino a quando una si è rivelata per noi letale. Di colpo, due corpi e un’anima. Due corpi, un’anima e zero passato, i ricordi da buttare nel cesso. Tutti, e di più quelli recenti, specie se ancora in vita. L’esistenza come una girandola di cose che aveva sempre detestato e contro cui ci aveva messe in guardia fin da bambine. Lo spreco, la pigrizia, l’avidità. Lui è diventato il vecchio con le scarpe firmate da giovane e amici tra persone che fino al giorno prima aveva detestato. E noi, quelle sbagliate, evidentemente cresciute in modo bislacco, siamo diventate la prova del suo fallimento. Il nemico a cui dichiarare guerra con un sms, le cui parole non ricordo più. Avevano il sapore di qualcosa di salato che cadeva sullo stramaledetto pranzo di Pasqua, mentre io e mia sorella lo consumavamo in silenzio, mantenendo la calma, sorridendo ai nostri figli, cercando di fissare il brodo nel piatto, per non guardarci tra noi e vedere il vuoto. Da lì in poi, per sempre, orfane.
©Roberta Lepri, 2015