Mi sono innamorata di te perché
Avevo ventuno anni e la parola che gli altri dicevano guardandomi era fiore. Tu avevi la mia età, eri bassino bruttino e rasavi i capelli come uno skin head, portavi solo Doc Martens estate e inverno, jeans attillati neri e giubbotto di pelle. Viaggiavi su Moto Guzzi e io avevo invece il terrore di qualsiasi velocità. Mi innamorai di te sentendo la tua voce sul bus. Raccontavi con accento nasale la tua lunga vacanza in Australia dopo il diploma, in cerca dei tuoi parenti inglesi e di tua nonna che stava nel posto più a sud del mondo e dalla finestra vedeva i pinguini. Mia nonna banalmente faceva tagliatelle fatte in casa e se si affacciava vedeva piccioni. Scoprii qualche mese più tardi che la tua si ubriacava anche con i cioccolatini al liquore di ciliegia, che tu gli spedivi dall’Italia proprio per poterla pensare brilla.
Così senza vederti decisi di amarti e prima di scendere dal bus ti abbordai platealmente scuotendo una testa così piena di capelli che sulla tua fronte si illuminò un grosso punto interrogativo fluo. Già. Perché proprio a te? Se lo chiedevano i tuoi compagni di corso all’università quando ci vedevano in fila alla mensa mano nella mano e tu mi guardavi e ridevi sempre, prendendomi in giro. Io ti guardavo e sempre ci rimanevo un po’ male, perché organizzavi feste inglesi per tua madre inglese a cui non potevo venire, feste australiane per tua nonna australiana a cui non ero invitata, feste scozzesi con i tuoi amici scozzesi da cui ero esclusa. Avevo sempre l’impressione di non piacerti. Troppo italiana, troppo alta, troppo bionda. Me lo ripetevi di continuo.
Riuscii solo una volta a varcare la soglia di casa tua, una grande fattoria sulle colline maremmane tra il verde e il mare. Tua madre e tuo padre e i tuoi fratelli non c’erano. E così mi caricasti sulla Guzzi e senza dire niente mi portasti a fare l’amore in camera tua. Dal corridoio sbirciai appeso sopra al letto dei tuoi un acquarello di Chagall e mi si fermò il cuore. L’amore di quel giorno è l’unico che ricordo di tutti gli amori fatti in vita mia: fu quel giorno che decisi di lasciarti. Io che ti amavo e mi ero tagliata i capelli a zero per esserti uguale e perciò venimmo molestati da dei bastardi che ci videro baciarci di notte in un parcheggio e ci urlarono dietro “froci froci”. Io che volevo solo piacerti e non sapevo esattamente quanto. Io che dal quel preciso momento in poi in avrei ricevuto da te tutte le attenzioni che non avevo avuto, mazzi di rose rosse e lettere d’amore appassionato e piangendo avrei buttato via tutto perché quando ti volevo tu non volevi me e se ti avessi ripreso poteva tornare tutto allo stesso modo. E io allora di certo sarei morta.
Fino al giorno prima del mio matrimonio, hai provato a farmi cambiare idea. Erano passati otto anni dalla nostra separazione. Ci amavamo ancora in qualche modo, tu eri lì per dirmelo, per chiedermi se ero sicura, se davvero sposare un altro era quello che volevo. Ma io quello che volevo non lo sapevo e mai lo avrei ammesso, neanche davanti al padreterno.
Ti ho incontrato a Londra per caso, dieci anni dopo, davanti al National Gallery. Ero sola, avevo appena smarrito il telefono, la mostra di Raffaello per cui avevo fatto quel viaggio era sold out e una cicciona nera mi aveva appena detto che con la mia prenotazione fatta on line mi ci potevo pure pulire il culo. Ovvio che stavo per piangere. Così non ebbi il tempo di dirti niente.
Tu, bianco come il marmo dei leoni di Trafalgar,apristi bocca e il mio nome ti scappò via tra i denti come una bestemmia, poi passasti ai saluti formali, mentre la tua ragazza ti tirava via per la manica della camicia, urlando come on come on Nicola, con un improbabile inflessione bolognese, assolutamente fuori luogo. Tu sparivi mentre lei ti tirava e io dicevo non importa, vai, vai pure. Le lacrime me le sono ingoiate. E da quel giorno mi ci è voluto un sacco di altro tempo per decidermi a chiarire con te.
E poi oggi alla fine ho deciso di dirtelo. Non mi andava di lasciare qualcosa in sospeso. Venticinque anni sono sufficienti per avere voglia di mettere un punto. E’ bastato digitare il tuo nome e la meraviglia di Google mi ha mostrato il filmino del tuo matrimonio. Una settimana fa.
Hai sposato un’italiana, pezzo d’asino che sognavi solo ragazze inglesi, mortificandomi perché io ero troppo diversa da loro.
Ti amavo perché eri tu. E adesso che non posso più dirtelo, te lo scrivo.
© Roberta Lepri, 2015
Il festival del rimpianto! Bel racconto, perfetto per San Valentino. Che in fondo è solo una finzione.