Io che non ho risposte da dare
Che bello questo nuovo ristorante, che bello essere qui, anche se sola. Cosa significa sola, anche solare comincia nello stesso modo. E io sono solare, sicuro. Specie dopo un calice di prosecco, che io questo vino qui lo bevo con tutto, è delizioso. D’altra parte, mi piace. Se mi piace, lo bevo. Con antipasto, primo, secondo, verdure, dolce. Ecco fatto, liscio il tovagliolo. Serata splendida. Gnocchi al sugo di cavolo, un sugo violetto come la camicia che lui indossava l’altra sera. E’ volata sul comò di sua nonna. Nudo mi piace da impazzire, ma capisco che dovrei concentrarmi sul cibo. Non è giusto associare le cose come faccio io. E’ sconcio. Sorrido. Un piccolo regalo, questo è quello che ci siamo fatti. Una volta, solo una, ma valeva per mille. Ci abbiamo messo tanto di quel tempo. Da piccoli non si poteva, poi ero sposata, poi era sposato lui, poi lui single e io di nuovo in coppia. Ora lui è fidanzato ma cosa vuole dire fidanzato a cinquanta anni, chissà. Comunque non si rifiuta l’invito di un vecchio amico, lui mi ha invitata e io gli ho detto di sì. Mica dovevamo per forza arrivare alla camicia violetta che volava sul comò di sua nonna. E invece. Tanto lei non la conosco. Poi comunque non è affare mio. Cioè, non la conosco ma so chi sia. La madre di Claudio mi ha mostrato le loro foto, quando l’ho incontrata ieri. Che storia complicata. Guarda qui la nuova fidanzata del mio ragazzo, tu non sai quanto sia carina.
Ora lo so, quanto sia carina. Ha appena aperto la porta del ristorante. Il ristorante nuovo in cui ho avuto la bella idea di venire da sola. Una bella idea, visto che anche voi l’avete avuta.
«Ciao» me lo dici come se fosse una colpa stare qui. Sono arrivata per prima. Cazzo vuoi, sorrido con l’anima tra i denti. Vattene, cazzo, Claudio, vattene subito
«Ciao, Sara»dici di nuovo.
Hai ripetuto ciao. Mi hai detto ciao due volte in due frasi successive e io ci sento benissimo. Se lei fosse meno tonta avrebbe già capito. Il tuo tono, la ripetizione, la tua faccia pallida come l’intonaco del muro alle tue spalle. Ma tonta non è l’aggettivo adatto. Comunque l’unico che riesco a trovare. Tonta è meglio di bella, meglio di strafiga fighetta con la coda di cavallo, i jeans aderenti e il culo come quello di una vespa. Tua madre ha trillato che ha quasi la mia età. Sembra molto più giovane di me, ho pensato. Sarà giovane ma è tonta, ho deciso.
«Sara? QUELLA Sara?» chiede lei e mostra la bella bocca aperta in una O di stupore giottesco.
Ne deduco che sono famosa. Che le hai parlato di me. L’alternativa è chiedersi: quante Sara ci sono nella tua vita? Ed eventualmente, tra queste: quante ne hai portate a casa di tua nonna? Ma decido che quella Sara sono io, io sono la tua Sara, solo io, complice il prosecco che rende il mondo migliore.
Sorrido. Tiro fuori da sotto al tavolo la mano unghia laccata di rosso e per un attimo prego dio Volverine di farmi crescere artigli come coltelli affilati. Mani di forbice, dai, sii il mio angelo protettore per un istante solo, ascolta la mia supplica. Gliela voglio spappolare, quella manina paffuta giovane dalle unghie corte smangiucchiate, che accarezza, prepara colazioni, sfoglia giornali, insapona sotto alla doccia. Edward si vede che ha di meglio da fare e purtroppo la mia mano resta umana, anche se gelida. Scivolo via come bava di lumaca da quella di lei, purtroppo intatta, e torno a rintanare i miei artigli inerti sotto la tovaglia.
«Che bella coincidenza, sognavo da tanto di incontrarti» dice la bella coda di cavallo strafiga ancora più figa ogni momento che passa.
Getto uno sguardo fuggevole al mio piatto. Tra poco il sugo sopra gli gnocchi si sarà raffreddato, il violetto del raffinato cavolo virerà sul celeste: come la luce della lampada per effetto della tua camicia che ci era atterrata sopra con l’innocenza delle cose che capitano a caso e che diventano qualcosa di completamente diverso rispetto al progetto originale. Come il tuo invito: a caso. Come il mio averlo accettato: a caso. Come i nostri corpi nudi sul divano. Come il vostro ingresso nel ristorante, poco fa.
Ecco, davanti a me c’è il primo che si raffredda, ci sono le bollicine del prosecco che cercano una via di fuga verso l’orlo del bicchiere. E io che non cerco una risposta. Perché non voglio trovarla. Tu aspetti. Lei aspetta. Il mondo intero aspetta. Il tempo intanto passa. La guardo dritta negli occhi e resto zitta. Potrebbe trascorrere un’era geologica, io non aprirò bocca. Guardaci dentro, penso. Guarda nei miei occhi e trova il coraggio di vedere la fine dell’innocenza. Tieni, prendi il riflesso di me e Claudio bambini, a fare il tifo per l’Italia ai mondiali, a rincorrerci intorno al tavolo per un pezzettino di mortadella il giorno di Natale. Guarda: è stato un attimo. Dalla sua festa di diploma al giorno del mio matrimonio. Nemmeno ricordavo fosse tra gli invitati. Me lo ha ricordato lui una settimana fa, mentre mi baciava la gola.
Eri cosi bella il giorno del tuo matrimonio. Ero così infelice, ha detto.
La mia gola era nuda sotto i suoi baci.
Perciò io adesso non ti rispondo, ti guardo soltanto. Ti metto a disposizione i miei occhi, però, come uno specchio magico. Passano i minuti. Forse cinque. Forse cinquanta. La gente intorno non si muove. Il tempo è sospeso, la vita è ghiacciata. Ecco. Hai capito.
Diventi pallida, lo guardi con espressione prima sbalordita, poi addolorata. Non sono comunque affari miei. Io l’ho solo amato per una notte. Ricomincio a mangiare, il mio sguardo adesso è tornato sul tavolo che mi appartiene fino alla fine di questa cena.
Andate pure.
©Roberta Lepri, 2015