Io sono i treni che non ho preso, le cartoline che non spedito,
le telefonate mute.
SARA
E parla.
Sara non ascolta il significato delle parole ma non può fare a meno di sentirne il suono, come di tanti calabroni che non smettono mai di ronzare. Mai, da quarant’anni.
E mentre Sara versa le gocce di sonnifero nel bicchiere, lei parla.
«Sei sicura di avermelo scritto il nome del ristorante? Come si chiama? La Pergola? Non ti chiamo di certo, figurati, una volta tanto che esci per distrarti un po’, ma non si sa mai, metti che non mi sento bene. E poi sarai anche tu più tranquilla, no?»
«Sì, mamma.»
Quattro cinque sei
Una goccia si allunga dal bordo del boccettino al bicchiere, quasi a non volersi staccare.
Quarant’anni di dolci parole, di abbracci e carezze, di amore e dolcezza. Spararsi un colpo sarebbe stato meno estenuante.
«Metti la camicetta che ti ho regalato per il tuo compleanno? Sta bene con la gonna nera. Però dovresti dimagrire, guarda che sederotto… come farai a trovare un fidanzato, eh?»
Ride ed è come una porta che cigola.
Sara tenta di caricarsi di odio. Smette di versare il sonnifero, si volta verso la donna e la guarda spogliandola di tutte le carezze, le parole dolci, le attenzioni; la spoglia della parola madre e per un mirabile secondo la vede come vorrebbe: una vecchia arpia maleodorante, sciancata, piena di rughe e ossa che spuntano da sotto la pelle avvizzita.
Poi lei ricomincia a parlare e come una regina si riveste di splendore e Sara si ritrova a contemplare sua madre, l’unica persona al mondo che l’abbia amata senza limiti, che la vede persino bella, che nasconde i suoi difetti come le briciole sotto un tappeto, che parla sempre e solo di lei alle poche amiche sopravvissute.
Sospira e ricomincia a contare: otto nove dieci undici
Non ha mai alzato la voce sua madre, questa è la cosa peggiore. Nemmeno quando ragazzina tornava a casa con una pagella che non andava mai oltre la pietosa sufficienza. Sua madre si limitava a scrutarla con quegli acquosi occhi chiari e commentava: «Ognuno ha i suoi limiti».
dodici tredici quattordici
«Non pensi che sia meglio prendere il tram piuttosto che la macchina? Se ghiacciano le strade? Tu fa’ come vuoi, ma mi sembra più prudente usare i mezzi.»
Tu fa’ come vuoi.
quindici sedici diciassette
Glielo ripeteva da tutta la vita e le parole le trillavano beffarde nel cervello.
Se almeno avesse urlato qualche volta, se l’avesse insultata, offesa. Invece, niente. Sempre dolce, sempre servizievole.
Quando aveva scoperto che sua figlia frequentava un collega, si era limitata a buttare lì alcune domande con tono noncurante: «Come mai lo chiami sempre tu?»; «Mi sembrava di aver capito che fosse fidanzato con una professoressa, no?»; «Non ti sembra che sia un po’ distratto ultimamente?»
Aveva continuato così sino a che un tarlo si era insidiato nella mente di Sara, un tarlo che rosicchiava e rosicchiava e una vocina sottile aveva cominciato a ripetere ha un’altra ha un’altra ha un’altra.
Quando l’aveva lasciato, il senso di liberazione provato si era trasformato in una nausea violentissima nell’istante in cui, dallo specchio, i suoi occhi le avevano rimandato uno sguardo stupido.
diciotto diciannove venti ventuno
Poi era arrivato Federico, un uomo tanto carino, ma così poco adatto a lei… Sua madre l’aveva convinta ad aspirare altri lidi, a esserle amica, questo sì, ma a non impegnarsi e, soprattutto, a non illudersi: l’amore non rende migliori, solo più esposti al dolore.
Sara aveva accondisceso, anche perché Federico amava un’altra – la sua psicologa – e lei aveva iniziato a trascorrere interminabili ore al telefono confortandolo per il suo amore infelice e beandosi dell’amicizia di cui la gratificava. In fondo, sua madre aveva sbagliato affermando che tutti gli uomini vogliono illuderti: lui non l’aveva affatto illusa, anzi, non perdeva occasione per ripeterle che ciò che provava per lei era non amore ma rispetto, affetto, stima. E lei, Sara, in quei momenti sentiva di amarlo più che mai.
Sua madre capitava sempre per caso in camera sua quando lei era al telefono, restava un po’ ad aggirarsi per la stanza mettendo ordine e poi, con la sua voce flautata, le diceva: «È quasi pronto» oppure «Scusa cara, ma dovrei telefonare al dottore». Sara riusciva a ignorarla per alcuni secondi, poi sentiva la gola stringersi sempre di più e salutava Federico con un «Ci sentiamo» appena sussurrato.
«È stata una bella idea quella di rivedere le tue amiche d’infanzia dopo tutti questi anni. A chi è venuta in mente? Ma non vorrai mica metterti quelle calze, vero?»
Sara osserva le calze posate sul letto.
Non ha idea di chi abbia organizzato questa cena e non è nemmeno certa che si tratti di una bella idea. Non ha niente di interessante da raccontare: fa un lavoro tranquillo; va al cinema una volta al mese; frequenta poche amiche alle quali ha poco da dire; cura sua madre e guarda molta televisione. Certo, trascorre ore al telefono con il suo amore innamorato di un’altra, raccoglie i suoi segreti, asciuga le sue lacrime e riscalda i suoi desideri quando lui comincia a sospettare che, forse, il suo amore per la psicologa è sprecato e che, inoltre, tanti anni di terapia non gli hanno arrecato questo grande beneficio. Sara gli dice no, non lasciarti andare alla tristezza, lei ti ama solo che non può esprimere quello che sente – è pur sempre la tua psicologa! -, forse suo marito non la lascia libera, forse forse e via con altre parole.
Sara alimenta con il suo amore impossibile l’amore impossibile di Federico, ma queste sono cose che non si possono raccontare ad amiche perse da tempo.
ventidue ventitré ventiquattro venticinque
«Metti quelle chiare.»
«Cosa?»
«Metti le calze chiare. Sono più adatte. Ma, tesoro, mi sembri un po’ imbambolata.»
La voce di sua madre l’avvolge come una tela di ragno e Sara sente il rancore crescerle dentro e appena il rancore inizia a riscaldarla, a farla sentire bene, a farla sentire forte, le mani di sua madre che le tamponano la fronte in una notte di febbre a quaranta le balenano davanti agli occhi, e il rancore si congela, perde vigore. L’amore la schianta e le fa salire agli occhi lacrime di frustrazione.
«Ci sarà anche Mara?»
«Non lo so mamma.»
«Non mi è mai piaciuta. Era cattiva.»
«Non era cattiva, mamma. Era solo una solitaria.»
«Era cattiva, ti dico. Aveva occhi che facevano paura.»
ventiseiventisetteventottoventinove
«Perché non ti metti il cappotto nero, tesoro? Fa’ come vuoi, ma secondo me sta meglio di quello lì azzurrino.»
Sara cerca di annullare i calabroni che le ronzano nelle orecchie, di cancellare le mani che le accarezzano la fronte, di soffocare anni e anni di parole dolci come il miele. Quasi non respira.
«Cosa vuoi a pranzo domani?»
«Quello che vuoi mamma.»
«No dimmi…»
«Pasta…»
«Pasta? Ancora pasta? No, sai cosa faccio? Un bel risottino.»
«Va bene mamma.»
Il cuore le batte veloce.
trenta
non è difficile basta non pensare
quaranta
basta non far lavorare la mente ma solo le mani
cinquanta
non soffrirà neppure, si addormenterà come una bambina
sessanta
giura a se stessa di portarle fiori freschi tutte le domeniche e di farle dire messe tutti i mesi
sessantacinque sessantasei sessantasette
terrà pulita la casa come faceva lei
settanta
bagnerà le piante del terrazzo, compreso quell’orribile cactus che mamma ama tanto
settantuno
indosserà la camicetta bianca che le ha regalato per il suo compleanno e le calze che le regala da trentacinque Natali a questa parte
settantadue
continuerà a offrire il te a quelle quattro vecchie rimbambite fino a quando schiatteranno
settantatré
e poi porterà fiori anche sulle loro tombe quando raggiungeranno mamma al cimitero e farà dire messe anche per loro
ottantaottantunoottantadueottantatréottantaquattroottantacinque
farà dire messe per tutti i vecchi del mondo e per tutti i padri e le madri, morti e seppelliti sotto strati di terra grassa, divorati dai vermi e imputriditi e scomparsi e annientati e silenziosi. Soprattutto silenziosi.
ottantaseiottantasetteottantottoottantanove
«Oh, se penso a quanti anni sono passati da quando giocavi con loro in cortile… Poi mi devi raccontare tutto quando torni, eh? Tutto tutto. Guarda, non prendo neanche il sonnifero. Ti aspetto alzata, così quando torni mi racconti. E non portarti le chiavi, ti apro io. Vai e divertiti e stai tranquilla, sarò qui ad aspettarti.»
novanta.
© Barbara Garlaschelli, Frassinelli, 1997