1.
Col sole che avvampava alto sul mare correvamo in bicicletta. La bocca arsa per la sete, la grande palla rossa che si stampava alle nostre spalle pareva finta. Sfrecciavamo come falchi tra i banchi di Ballarò, ci alzavamo con le mani sui manubri per lo sforzo, i piedi scalzi. Io chiudevo la fila. Tore stava davanti, Tano e Salvo invece si disponevano ai lati. Quando decidevamo di non tornare a casa, avanzavamo piano nella sera che si spargeva silenziosa tra le case. Andavamo a infrattarci lungo il binario morto della stazione Notarbartolo. Nel vecchio vagone abbandonato ci dividevamo quello che durante il giorno eravamo riusciti a trovare. Tore se ne stava quasi sempre in disparte, si avvicinava solo quando aveva finito di strafogarsi la roba sua: «Faccillo vedè che ti sei accucchiatu … Tore!»
«Fatti i cazzi tuoi», gli rispondeva lui senza guardarlo, mentre continuava a rimasticarsi la cicca e allora Tano si zittiva.
Qualche volta decidevamo di annottarci al vagone. Tutt’intorno c’era un silenzio che spaccava le orecchie. Rincantucciato nel buio, sentivo in lontananza un locomotore fare manovra, lo sentivo trascinarsi stancamente le tonnellate di ruggine del suo peso, in un bordello di fischi e stridori. Qualcuno di nascosto veniva a rubarsi il ferro vecchio, mentre attraversavano i binari li sentivo ghignare con la voce dei lupi.
La mattina, stordito dalla veglia e dal sole che si spargeva ovunque, tentavo di tornare a casa. Non riuscivo nemmeno a svoltare l’angolo che mia madre era già fuori dal portone che mi rincorreva tutta allazzata: «Talè, ven’a cca disgraziato, ven’a cca fetuso», urlava furiosa per la strada, poi quando si stancava di rincorrermi, prendendo la mira tentava di colpirmi con la tappina, con tutto il quartiere affacciato alla finestra. Un giorno sempre a Ballarò, Tore, dopo uno dei nostri soliti traccheggi al mercato, si fermò a guardare una moto di grossa cilindrata e quella pausa gli fu fatale. Vidi il grosso braccio nerognolo agguantarlo per la maglietta, Tanuzzo e Salvo si erano già dati da un pezzo. Rimasi imbambolato per qualche istante, con un piede puntato a terra, ma quando l’uomo voltò il suo sguardo verso di me, feci leva sui pedali e scappai.
Dopo le partite al campetto dei salesiani andavamo al forno Letizia a chiedere l’acqua frizzante, era l’unico negozio del circondario, i muri accanto esplodevano al sole. La mamma di Filippo, il fornaio, teneva in braccio il nipote in mezzo a una gara di mosche. Guardavo i biscotti di buccellato, le crostate, i baci di zucchero, mentre lui si asciugava il sudore.
«Picciò l’acqua noi qua la pagamo e quella che fa `e bolle ve la potete pure scurdà!» ripeteva donna Fiorenza succhiando la dentiera. Allora Filippo andava nel retro, riempiva due bottiglioni di acqua del sindaco e li appoggiava sulla vetrina appiccicosa di marmellata.
«Jatevinne», diceva con un sorriso sdentato, e noi uscivamo di corsa. In mezzo a un nugolo grigio, accanto al cofano aperto della sua macchina, Mimmo ogni tanto sporgeva la testa e santiava tutto il calendario, perché aveva bruciato un’altra volta la coppa. Sul muro, accanto al negozio cinese dalle lanterne sbrindellate, c’era una scritta nera, fatta con lo spray: DIA MERDA, diceva.
© Alessandro Angeli, 2018