Quann’’o diavulo t’accarezza, vo’ ll’ànema.
Quando il diavolo t’accarezza, vuole l’anima
(Proverbio napoletano)
La crudeltà ha cuore umano.
E volto umano la gelosia.
Il terrore, umana forma divina.
E veste umana, il mistero.
Canti d’esperienza, William Blake
Io sono i pensieri cattivi, le unghie che crescono,
le matite spuntate.
RENĖE
Il nero ha molte sfumature.
C’è il nero compatto come il carbone; il nero lucido e vischioso come il petrolio; quello tenue, morbido come pezzi di seta; quello peloso del manto di un gatto; quello denso del sangue raggrumato.
E il nero suscita sentimenti diversi. Può cullare come le braccia scure della notte; terrorizzare come la bocca spalancata del mare in tempesta; ipnotizzare come gli occhi scuri di chi si ama.
O può costringere all’immobilità annichilente, come sta accadendo ora a Renée.
La vedo, io sola posso, io sono la Narratrice, colei che sa.
Da ore sta seduta sulla sedia in plastica gialla della cucina. Se ne sta immobile come una statua di ghiaccio, le mani posate sulle cosce con i palmi rivolti verso l’alto come stesse aspettando doni che cadano dal cielo. Il frigo è rimasto semiaperto e un odore acre di verdure e formaggi aleggia nel locale.
Renée non sente alcun odore, né vede alcuna luce. Resta lì seduta.
Poi, all’improvviso, si è guardata le mani sporche di sangue. Le ha guardate a lungo come non riuscisse a capacitarsi che le appartenessero e come accade spesso nei momenti di totale disorientamento ha fatto l’unica cosa logica che potesse fare: è andata a lavarsi. Con passi leggeri si è spostata in bagno, ha aperto il rubinetto e ha miscelato l’acqua, proprio come fa sempre. Acqua tiepida. Poi ha infilato entrambe le mani sotto il getto e ha cominciato a sfregarsele con energia. Ha lasciato scorrere l’acqua per pulire bene la ceramica bianca da ogni traccia di sporco e si è guardata allo specchio. Si è guardata a lungo, senza vedere niente. O meglio, senza vedere la sua faccia, ma quella di Elena e delle altre amiche che nel corso degli anni ha perso per la strada, come sacchetti di patatine gettati via. E, sullo sfondo, un altro viso, un paio di occhi scuri che la osservano severi e stupiti come solo gli occhi di chi ami possono guardarti.
Si è avvicinata allo specchio e ha allungato una mano, cercando di pulire lo specchio per cancellare quelle facce, quelle bocche sorridenti, quegli occhi curiosi. Esiste una quantità di ricordi oltre la quale è difficile sopportare la vita, ed è forse per questo che dimentichiamo.
Lo specchio le ha rimandato la sua di faccia, lineamenti aguzzi in cui sono confinati occhi talmente chiari da sembrare trasparenti.
Le piace la sua faccia, le è sempre piaciuta. Chissà perché non piaceva a Stefano, invece.
Aveva creduto che amarlo fosse sufficiente per sopportare tutto. Per un certo periodo di tempo si era ripetuta una frase che aveva ascoltato in un vecchio film: “Il mio amore basterà per tutti e due”.
Non le ci era voluto molto per comprendere che si trattava di una menzogna colossale; bella frase, ma di nessuna utilità. L’amore pretende di essere corrisposto, questo aveva scoperto. Non esiste amore gratuito. Anche coloro che sostengono di amare i bambini, i cani, i gatti, i poveri solo per ciò che sono, senza “nulla a pretendere” mentono. Anche i santi vogliono essere amati. Ci si nutre dell’amore degli altri. Ci si vampirizza a vicenda.
Ma con Stefano no, non succedeva. E nemmeno con Elena, né con le altre. Era solo un dare dare dare, e un aspettare aspettare aspettare.
Aspettare che prima o poi si decidessero ad amarla.
In questo aveva sbagliato: nessuno può amare per forza.
Renée si è spazzolata davanti allo specchio, si è lavata i denti, si è guardata il taglio alla mano e il cuore ha avuto un nuovo colpo di accelerazione: il taglio è profondo, e l’ha spaventata rendersi conto di quanto male ha cominciato ad infliggersi senza nemmeno rendersene conto.
Perché non l’aveva neanche sentita la lama del coltello penetrare nel palmo della mano mentre stava tagliando il pane.
E questi momenti di “assenza” in cui René si fa del male, diventano sempre più numerosi e la loro durata è sempre più lunga.
Tutto è iniziato quando Stefano le ha detto: «Bambina, adesso basta». Basta scenate di gelosia, basta pianti, basta telefonate notturne che colano parole disperate come rubinetti difettosi. E ha ragione, ha ragione, si ripete Renée.
Perché Renée ragiona, capisce, concorda, ma poi succede qualcosa, qualcosa nel suo cervello si sposta, come un sipario che cala e di nuovo lei comincia a rincorrere Stefano, non ciò che è ma ciò che vorrebbe fosse.
Io la vedo pulire la spazzola dai capelli che sono rimasti aggrovigliati, dimenticarsi di nuovo della ferita alla mano e poi scrutare stupita quelle gocce che colorano di rosso le piastrelle.
La Narratrice sa, vede, ma non può intervenire, così il dolore di Renée diventa un po’ anche il suo dolore e vorrebbe asciugarle la mano, disinfettarle la ferita, fasciarla e accompagnarla fuori, dove il mondo traspira vita come un vecchio polmone e vorrebbe dirle: “Guarda Renée, guarda” e portarla in giro per le strade, farle sfiorare con la mano il muro sgretolato della scuola in cui ha trascorso otto anni felici, trascinarla giù per il lieve pendio da cui tante volte è scivolata con un sacchetto dell’immondizia sotto il sedere mentre la neve le si infilava dappertutto, vorrebbe spingerla sui tram affollati, in mezzo alla gente che corre a casa.
Invece, la Narratrice, io, mi limito a raccontare di Renée che si guarda la mano che sanguina e finalmente capisce che quello è il suo sangue e che non c’è più Stefano non c’è più Elena non ci son più le altre amiche e che i tagli cominciano a essere troppi e troppo il dolore.
È che se ne sono andati tutti. Anche lei.
Perché è così Renée, la gente se ne va e pure tu te ne sei andata anche se sei ancora qui, con una mano che cola sangue e i capelli impigliati nella spazzola. Perché così va il mondo: niente resta uguale, o meglio, niente resta. Chiudi gli occhi e chi ti sta davanti è già un altro, apri gli occhi e tu sei già un’altra.
Terrificante.
Sublime.
Così, io ti aspetterò fuori dai tuoi labirinti bui e, nel frattempo, racconterò un’altra storia.
©Barbara Garlaschelli, 1997, Frassinelli (fuori catalogo)