LINEA DI CONFINE
Il tempo, lento e buio, mi danza addosso grave, il passo pesante come una coperta di lana.
La persiane accostate difendono, con ostinazione, l’intimità della stanza dalla potente insolenza della controra.
Fuori, campeggia un cielo finto, dipinto in un color azzurro smalto scintillante.
Fuori, dardeggia un sole tracotante.
Questo luogo si fa liquido nell’arsura del mezzogiorno.
Scorgo un profilo di donna, ondeggiare sulla Linea di Confine. Deve essere pazza. Nessuno si aggira sulla Linea, men che meno sotto il solleone.
La sbircio: pare cadere; non riesco a trattenermi e le urlo: «Attenta! Devi stare attenta! Se esci allo scoperto, devi mantenere sempre la guardia alzata, sai?»
La sconosciuta ha un volto anonimo e occhi profondi come grotte, buie. Non reagisce.
Continuo: «Se esci, basta un attimo e capace che il Sole ti infili uno dei suoi raggi obliqui nella mente e ti denundi i pensieri. Sì, è così.»
Prendo fiato, una boccata d’aria secca mi annoda la lingua: «Immagina. Tu sei sulla strada. Un attimo prima cammini adagio, serrando a coorte il tuo schieramento di pensieri – file perfette di bravi soldatini – e un attimo dopo te li trovi nudi fino al midollo, esposti nella loro struttura più intima.»
Tossisco. Gli occhi della donna fissano il vuoto, bui come tane disabitate.
La mia voce si riduce a un sussurro: «Capisci? Il Sole ti serra i pensieri in un pugno stretto e poi li sbatte contro un muro. Alcuni, i più tosti, provano a di fendersi, dibattendosi un poco. Fa male.Così ti porti le mani alla testa, a coprire quelle impudicizie: considerazioni s ensate ridotte ad una poltiglia liquida che ti cola fra i capelli, sulla fronte.Dopo, succedono cose strane: voci della lista della spesa giocano a nascondino con le note del miglior giro di basso che tu abbia mai sentito e su quel ritmo inedito Giulia, anima di carta velina arsa dalla fiamma di una candela, si contorce, danzando fra le piaghe della memoria.»
[«Giulia…dove ti sei nascosta?»
Silenzio e vaghi
ricordi di un
piede di bambina
che segna il
ritmo sull’impiantito
di una cucina
che ora non esiste
più.]
Taccio, per un poco. Riprendo fiato. La donna continua a fissarmi, gli occhi vuoti.
Pare sussurrare qualcosa, ma forse è un effetto ottico; forse là, sulla Linea di Confine, l’aria vibra in maniera diversa e getta ombre ingannevoli sui profili, bianchi come cera fusa.
Gigioneggio. Mi godo l’attimo. È cosi raro aver un pubblico da intrattenere, da queste parti.
Continuo, ispirata: «Sai, la coscienza è un cane di pezza. Un vecchio bassotto privo di un occhio.Sì, un botolo oblungo come quello che la zia usava per puntare i suoi spilli da sarta.
La coscienza è un cane di pezza, un puntaspilli che si rivolta e ti sbrana.
Perché lui sa. E anche tu sai.»
La fisso: ora si è accorta di me e mi guarda con un’espressione stranita, attonita… neache l’avessi strappata da un appassionato dibattito sui massimi sistemi per discettare – che so io? – di formiche.
Il suo stupore insipido infiamma il mio livore.
Le gracchio addosso, sputando parole astiose «Sono giorni che fingi di deglutire le pasticche che l’infermiera ti lascia sul comodino! Le lascia accanto a quell’acqua dal sapore di plastica e le mele vizze, appassite come i tuoi seni! Seni da vecchia, un ammasso di pelle che nessuno accarezza da anni!
Sono settimane che con la terapia ci concimi la terra dei ciclamini, morti anche loro!
Morti come il tuo sguardo vuoto, vacquo e che nessuno più cerca!»
La mia voce si incrina: «E nessuno se ne cura! Perché che tu viva o muoia non fa più differenza per nessuno!»
Continuo ad urlare, la mia voce è una lama poco affilata, un crescendo cacofonico che pare scuoterla dal torpore.
L’estrenea mi fissa. Le grotte che ha al posto degli occhi ardono come pire funerarie.
La scorgo, rigida sulla riga amorfa del Confine.
Fra ombra e luce. In equilibrio, alla confluenza di Coscienza e Oblio.
Alza un braccio, come se salutasse da lontano.
Scompare.
Esplode, a onor del vero.
Mi lascia sola, a riflettermi in mille frammenti argentei.
© Maria Elena Poggi e Strips&tirps, 2018