DELLA NATURA DELL’ALBA
Quando esco dalla fabbrica sto attenta a coprirmi le mani. Non ho più i guanti, me li hanno rubati. Allora abbasso il maniglione in fretta e poi cerco subito le tasche. A volte non basta. Rientro con la punta delle dita viola e i tagli sulle nocche. Hanno il sapore del pesce, i tagli. Del pesce e del ferro.
Sto attenta pure a camminare. Il ghiaccio copre le strade, i marciapiedi, i tetti e i bordi degli edifici vuoti.
Il mare soffia contro la costa odio spumoso e bianco.
Hadau diafol, lo chiamano le più vecchie.
Poi cadono, si rompono le ossa e piangono.
Urlano contro Dio e piangono.
Chiamano i figli morti e piangono.
Se non puoi lavorare in fabbrica perché hai un osso rotto, allora devi startene nell’alloggio del Condominio. Non puoi uscire.
C’è una grande scala di legno, che sale in mezzo al Condominio. Scricchiola a ogni passaggio.
I nostri alloggi sono intorno ai pianerottoli, in legno pure questi.
Di notte la luce è sempre accesa. Dalla serratura della porta filtra tremula la fiamma delle lampade.
Sono troppi piani, non li ho mai contati.
Eppure da qualche notte a questa parte sento di essere fortunata a stare nel mezzo.
Gli scricchiolii nel silenzio sono come denti che si spezzano in bocca: non puoi non accorgertene, lasciano il sapore del sangue.
A volte la fretta, altre l’incapacità di scegliere. O si ferma ai primi piani, o va oltre. Altre volte, prova ogni porta.
Sento i passi salire, il legno piegarsi, e ancora i passi. Fino alle porte. Poi maniglie che girano, cardini che resistono. Ferro e legno e pesce e sangue.
Distesa, stretta sotto le coperte, quando tocca alla mia, tremo.
È un uomo solo. E dico che sia uomo per il peso che trascina a ogni passo.
Anche la spinta sulle porte è di un uomo. Ogni volta che la serratura perde la luce, prego che resista e non si schianti. Tiro le coperte fino al naso e poi lo vedo, sempre. L’occhio. Dritto alla serratura, scruta dentro, in cerca di me. Ma io sono al buio. Immobile.
Dopo, se ne va.
Ieri notte ha ceduto una porta ai piani alti. Ho sentito urlare e sbattere. Poi solo sbattere.
Stamattina, alle prime luci dell’alba, quando tutte scendevano per andare in fabbrica, sono salita.
Non ho contato i piani, ma alla fine ho trovato la porta. Lo stipite divelto.
Ho spinto quel poco per passare. Dentro non c’era più nessuno.
Solo il letto, senza coperte, con il materasso zuppo d’acqua e un alone giallo nel mezzo.
E un sacchetto con dentro dei gomitoli di lana.
Ho pensato alle mie mani così l’ho preso.
Poi sono andata in fabbrica, scendendo le scale di corsa.
È stata una giornata come le altre. Solo ogni tanto ho infilato le mani nel sacchetto e ho stretto la lana per trovare un po’ di calore.
Poi sono uscita e sono tornata nel Condominio.
Ho cenato con il pane e la verza bollita.
Adesso spengo la luce e aspetto.
Ho male dietro al collo. Il freddo, la fatica, la mancanza di sonno. Ho male.
Diafol spinge che forse non è nemmeno mezzanotte.
Arriva alla mia porta. E per un attimo la luce scivola dentro anche dai contorni.
Però la serratura regge. Allora mi alzo da letto e corro scalza e spingo contro, per tenerlo fuori. Mi accascio, per paura che mi veda. La maniglia gira e rigira.
Il rumore metallico non copre del tutto quello dei respiri.
Il mio, atterrito, e il suo, da bestia.
Rimaniamo fermi. Divisi solo da uno spessore sottile.
La luce filtra dentro dalla serratura, poi diventa buio, poi torna la luce. Ma non va via. Aspetta.
Passa troppo tempo.
Tremo. Piango. Ho sempre più freddo.
Poi lo vedo, il sacchetto con i gomitoli. Allungo il piede e con la punta delle dita lo porto verso me.
Con la schiena contro la porta, affondo le mani nella lana e stringo i grovigli al collo.
Eppure ho toccato qualcos’altro, così cerco ancora sul fondo del sacchetto e scopro un ferro da maglia piegato a V.
Lo prendo e lo raddrizzo. Si spezza in due parti. Tengo quella con la punta.
Mi volto, in ginocchio verso la luce che entra.
Lentamente, appoggio la punta aguzza sul bordo inferiore della serratura.
Poi tornano le tenebre. L’occhio torna a cercare.
E io spingo il ferro con tutta la forza che ho.
L’urlo che sento viene dalle viscere dell’inferno.
Della natura dell’alba come vita che ricomincia sono state scritte pagine dai pensatori più saggi. Della natura dell’alba come morte della tenebra ho timore di parlare perché la tenebra non muore mai, si nasconde ferita e aspetta che sia il giorno a morire. Nel lutto, pasteggia.
Le vecchie continuano a chiamarlo Hadau Diafol. Spinge e soffia.
Adesso, però, hanno un nome anche per me.
Mi chiamano Wawr.
Lo sussurrano di notte, per propiziare il sonno.
E io questi sussurri li sento.
Fino al prossimo scricchiolio.
(Max Richter – On the nature of daylight)
© Alessandro Morbidelli, 2018