LEON
“Leon” di Luc Besson. Il mio film preferito di sempre.
Passo dopo passo dopo passo c’è l’odore del sangue e il sapore del sangue, perché dal naso scende verso le labbra. Passo dopo passo dopo passo c’è l’odore della polvere da sparo e delle sigarette rinchiuse in un ballatoio, a strozzare i muri, a scorticare le balaustre. Passo dopo passo dopo passo c’è la colazione di tuo padre che esce fuori dai buchi di proiettile e la saliva di tua madre a sciogliersi nell’acqua della vasca, densa di sangue. Passo dopo passo dopo passo ci sono le tue mani che stringono due buste della spesa. In una ci sono due confezioni di latte e la prospettiva di un massacro. A casa tua, mentre tu non c’eri. Tutti, lo sai perché il poliziotto se la prende con il collega, che oltre a tua sorella ha fatto fuori pure il bambino di quattro anni. Sono morti tutti.
Passo dopo passo dopo passo lasci dietro di te la guardia all’ingresso, quella con il fiammifero in bocca e il cruccio di tempesta.
Passo dopo passo dopo passo vai avanti, abbassi la testa e arrivi alla sua porta. Senti lo sguardo della guardia respirarti dietro le tempie e la nuca, a masticarti i pensieri.
Infine ti fermi e suoni il campanello. Allora non riesci più a trattenerti. Una lacrima grande quanto il bene che Dio ha lasciato agli uomini ti scivola lungo la guancia.
«La prego… apra la porta… la prego» dici. E suoni di nuovo.
La guardia ti osserva. Una scarica di male le attraversa i nervi. E suoni di nuovo.
«La prego…» sussurri in un pianto muto. E suoni di nuovo.
Poi la luce ti avvolge. La porta si apre. E sei salva.
Il Comandante Norman Stansfield si osserva allo specchio. È giallo come lo sfondo del bagno della Centrale di Polizia. Dietro di lui le porte chiuse dei gabinetti, gialle, e le piastrelle incrociate a trama di mattone, gialle, scosse dalla luce, gialla. Allora apre il rubinetto, immerge la mani nell’acqua e se la porta al volto. Quando torna a respirare, tossisce. Quando si asciuga la faccia sputa uno schizzo di male nella carta. Adesso può dedicarsi al piccolo grumo di colore che sei tu, addossata alla parete, stretta nella miseria di costole magre e membra sfinite, con una piccola cuffia rossa in testa, perché non puoi permetterti di prendere un raffreddore. Il tuo è il volto di chi è morto.
«Matilda, voglio che tu posi per terra quel sacchetto…»
Lo assecondi.
«Bene…» dice, ed estrae la pistola, «… e adesso voglio che tu mi dica tutto quello che sai sulla cucina italiana. E non dimenticare il nome dello chef che mi ha preparato questo piatto…»
Allora tu glielo dici, che non servirà a niente scappare da te, anche se sei una bambina.
«Non mi manda nessuno. Io lavoro per conto mio.»
Allora il Comandante Stansfield vacilla. Lo capisce subito che la morte può nascondersi nelle pieghe e nei riflessi. Balbetta.
«Allora… è… è una… una cosa… personale… giusto?»
Una lacrima grande quanto l’amore che Dio prova per i bambini scivola lungo la stessa pelle dell’altra volta.
«Che razza di stronzata schifosa ho fatto adesso?» ti chiede.
E tu glielo dici, come se fosse la risposta più logica del mondo.
«Hai ucciso mio fratello…»
Passo dopo passo dopo passo svicoli oltre le auto della Polizia e i lampeggianti e le uniformi che si danno da fare. «Ehi, tu, cosa ci fai qui, levati, forza…» ti dice uno grasso.
Sei veloce. Il sole scava ombre sul tuo volto e le foglie della pianta che tieni in braccio ti sfiorano la pelle. Passo dopo passo dopo passo un uomo cammina verso la luce di una porta aperta. Cade e muore e ti libera per sempre. Passo dopo passo dopo passo lasci alle tue spalle le macerie. Matilda.
© Alessandro Morbidelli, 2017