GLI SCRITTORI MORTI
Al culmine della disperazione, divorato da un’ansia insopportabile, iniziai a frequentare chiese e cimiteri, a dormire nelle bare dei morti, a cospargermi il volto della sabbia che producevano i loro corpi.
Potevo allora vedere e ascoltare dei mondi nuovi, immerso in una distesa di lapidi, oppure sotto le forme lunari delle absidi e dei rosoni infiniti. La voce dei morti, in quei momenti, come tipo anche adesso, risuonava allora intorno a me come una polvere, una foschia che si accosta gelida alle pareti del nostro cervello, il loro sussurro era l’unica cosa che mi interessava, perché solo i morti sono in grado di dire le cose chiaramente, sprovvisti di una lingua comune i morti accennano, parlano a simboli a enigmi, parlano un linguaggio che va oltre questa cosa rudimentale che ci hanno messo in bocca, finalmente, trascendono.
Bisognerebbe allora leggere solo scrittori morti, la morte nella sua assolutezza è capace infatti di rendere una parola importante, solo chi ci parla dal vuoto, dalla fine, dalla rovina, può dire qualcosa di un qualche valore. Quindi non mi ascoltate, lasciate perdere questa bocca scheletrica, questa faccia tinta da morto con la polvere che fanno i morti.
Lasciate invece che gli spettri prendano vita e forma in una caccia a qualcosa di immenso che è già stato arpionato, abbattuto, che già giace in qualche profondità a consumarsi vacuo, immenso e solo e immensamente solo, la sua carne che già inizia a mostrare le ossa bianche e splendenti, la pelle che si ritrae sconfitta, rosicchiata dal tempo che prima ci rende vermi e poi sabbia.
Dovreste rimanere sdraiati, ecco cosa consiglio, in un silenzio estatico come quello dei santi, non dovreste alzarvi mai più.
Invece si alzano, anche loro, guardate, escono dalla terra, lentamente, cercano ancora di affermare perché non si accorgono, ruzzolano, rotolano, provando formare a fermare, ancora vogliono essere, sussistere inutili, articolano con le loro lingue vermose le loro parole schifose, e ancora!
Perché cos’altro facciamo? Cerchiamo di dire delle cose, di prendere una qualche importanza dentro al buio della testa, nelle profondità pineali e craniali, lo facciamo in maniera patetica e eroica, delle volte sembriamo immensi, pensiamo di volare, ci sembra di vibrare nel cielo fino ad azzannare anche le stelle, ma ci alziamo già gonfi come si gonfiano i morti, e ci accorgiamo che il gas che ci eleva è solo putrefazione batteri che danzano in un caos brulicante, e poi perdita, lutto, fino a che non cadiamo rovinosamente, sfracellandoci contro la terra come fanno delle volte i grandi astri gassosi oppure i più luridi degli asteroidi.
Delle volte allora, disegnandomi i segni della decadenza con le dita sulle guance, sugli occhi, penso che la morte sia una specie di malattia, oppure una beffa, una grande beffa messa in piedi per umiliarci, una barzelletta che non finisce mai, che fa schifo, ribrezzo che umilia e fa piangere e urlare e allora seguitemi!
Mettetevi in faccia le vostre facce da spettro e da scheletro, le dentiere di gomma con i denti affilati, e poi le bende e le corna e le code, oppure i teli bianchissimi con i buchi rotondi, e allora scendete con me, andiamole incontro con il coltello tra i denti, non lasciate che vi spaventi, non lasciate che vi faccia arretrare, arretrano i cani, i codardi, voi andatele incontro con il torace spalancato, il cuore disperato, nudo, che batte immenso come un funereo tamburo da guerra.
© Uduvicio Atanagi, 2017