QUELLA COSA SENZA NOME
Sei dietro il vetro della finestra, con il naso appiccicato che fa l’alone di vapore. Respiri l’odore del tuo fiato, che sa del vino, del pane e dello zucchero che ti hanno dato a merenda. Per cena invece non hai voluto niente. Hanno insistito ma tu niente. Sei stata scortese a tavola.
Ti sei alzata per andare ad attaccare il tuo naso al vetro della finestra come se fosse l’unica cosa indispensabile da fare. Da quel punto puoi vedere i fari delle auto che arrivano. Quelli che ti interessano hanno una forma particolare, sembrano occhi cinesi, lunghi e stretti.. Tu li vedrai e il tuo cuore farà le capriole. Scenderai correndo le scale e sarà tutto finito.
Attendere è quella cosa necessaria, e a te chiude lo stomaco come una mano stretta a pugno. C’è una specie di magia che solo tu conosci: se resti lì davanti, ferma fermissima immobile, loro tornano. Tu però hai aspettato e loro non sono tornati. Forse non sei stata abbastanza brava. Forse non sei stata abbastanza ferma.
La tata ti sgrida e dice che poi quando mamma torna glielo racconta che non vuoi mangiare. Anche quando torna babbo, aggiungi tu.
Poi vorresti gridare i loro nomi vicini alla frase “quando tornano”, seguiti da un punto interrogativo ma ti vergogni.
Hai cinque anni e sei grande. Non devi fare le bizze. Non devi piangere. E infatti tu non piangi, aspetti.
In bocca il sapore del vino a tenerti compagnia.
Le gambe formicolano un poco ma rifiuti di sederti. Chi è questa gente, non è la tua famiglia. La tua famiglia non c’è e loro sono degli estranei, anche se li conosci.
Quando i tuoi torneranno dirai che sei stata bene, perché sei bugiarda.
Perché non vuoi ferirli. Perché in fondo è un po’ anche vero, in campagna ci sono i pulcini e i maiali a cui fare dispetti. C’è il filo elettrico del recinto da toccare con il piede che ti fa fare un salto indietro con i capelli tutti dritti. Anche i grandi annaffiatori del campo del granturco di giorno sono meravigliosi, ed è bellissimo starci sotto in agosto e farsi gettare a terra nel fango per poi vedere la faccia sconvolta della tata.
Poi però viene la notte.
E non scende subito come tirare una tenda scura. Viene giù poco a poco come la goccia del miele, questa cosa che non sai come chiamare. Tu sei la mosca che si è sbagliata ad avvicinarsi e ora ci crepi dentro.
La tata ogni tanto la chiami mamma. Lei è paziente. Ti dice Io non sono la tua mamma.
E te lo dice ogni volta, senza stancarsi. Certe volte ti esce proprio spontaneo.
Altre lo fai apposta, così lei ti risponde di no con quella faccia rugosa e un po’ triste.
E tu sei contenta che la tua mamma sia un’altra, quella bellissima che lavora un sacco e che nel fine settimana ha bisogno di relax e di andare a ballare e di distrarsi col babbo. Quella bellissima, non questa che ha le mani ruvide e odorose di candeggina, la sola che hai, e che ti porta a dormire con sé e manda il marito in un altro letto. Via, via, io sto con la bimba altrimenti piange, piccinina, se si sveglia ed è sola. Si è addormentata con il naso contro il vetro, ora la spoglio e la metto a dormire.
Lei non lo sa che non è vero. Tu sei ancora di là, in piedi, immobile, che aspetti.
© Roberta Lepri, 2017