THE MAGIC HOUR
Mentre passeggiavo per le vie strette e deserte del paese, illuminato a stento dai lampioni tenui di una calda notte d’estate, mi trovai a passare di fronte a un grande portone aperto per metà, l’ingresso di un antico palazzo che avevo visitato una volta sola, da bambino, con mio nonno.
Il legno dell’anta chiusa era screpolato e vecchio, eppure così solido rispetto al buio accanto.
Mi fermai di colpo, rapito da quella macchia nera che il paese aveva rubato alla notte, per nascondersela tra le pareti e per attirare quelli come me che non avevano una meta precisa né un motivo per andare o per venire.
I miei piedi si mossero da soli. In un attimo abituai la mia vista all’assenza di luce e iniziai a salire le larghe scale che a spirale portavano ai piani.
Con il palmo a lisciare la balaustra in ferro, riconobbi i rigonfiamenti della ruggine sotto il passamano, portandomi appresso alle dita filamenti di polvere e ragnatele.
Dalla finestra sul primo pianerottolo riusciva a filtrare l’ultimo riverbero dei lampioni. Scoprii allora gli intonaci scrostati e le efflorescenze saline, le fratture sui travertini e le righe nere che il tempo aveva solcato sugli strati.
Le porte dei locali, piano dopo piano, erano tutte uguali, come dipinte su una pietra, prive di appigli o di pomelli. Anche le serrature avevano abbandonato quel posto.
Arrivai in cima, oltre l’ultimo piano, alla fine di una rampa che si fermava contro un abbaino con una larga finestra aperta che si affacciava sui tetti. Scavalcai.
La distesa di coppi antichi e irregolari sembrava galleggiare sul chiarore caldo che veniva dalle strade. Sopra, il cielo stellato più limpido che mi fosse mai capitato di vedere. Le luci del mare erano lontane, eppure presenti e tremule, sotto il paese.
Il vento caldo mi portò il profumo che riconobbi subito.
Così mi sedetti a pochi passi dalla gronda, mentre la stanchezza scivolava via tra le fessure della memoria e la saggezza tornava a trovarmi dopo tanto tempo. Tolsi le scarpe, arrotolai i pantaloni sopra alla caviglia e sbottonai la camicia. Mi distesi.
Lei arrivò scalza. Indossava un vestito di cotone chiaro, leggero. Teneva in mano un lumicino, attenta che non si spegnesse per un soffio improvviso del vento. Si sedette accanto a me.
«Ho fatto un sogno. Una trama semplice…» le dissi mentre la luce della fiamma accendeva i suoi capelli chiari d’estate.
Allora si chinò. Abbandonò la testa sul mio petto e io le accarezzai il collo. Sorrise.
C’erano uomini che prendevano il mare, giù alla costa. Come benedetti dalla certezza di essere gli unici padroni di un mondo arcaico godevano dei silenzi e respiravano. Avevano mogli e figli o soltanto vecchi padri e vecchie madri.
Anche loro, come noi, si rivolgevano al dio delle piccole cose in quei momenti di pienezza.
Anche la loro, come la nostra, non era una preghiera.
© Alessandro Morbidelli, 2017