La Sviaggiatrice distratta [11] di Viviana Gabrini

MANET ET MANEBIT

Appoggiata con tutto il peso del corpo al bancone del bar, Suzan mi guarda con occhi stanchi. La bocca ha preso una piega quasi amara e capisco che da tempo ha smesso di ascoltare il cliente alla sua sinistra che le riempie la testa di chiacchiere inutili e senza senso.
Contraccambio il suo sguardo e le sorrido: sono alla mia prima, brevissima, visita a Londra e mentre le amiche hanno deciso di consacrare la domenica pomeriggio ai magazzini Harrods, io sono scappata alla Courtauld Gallery proprio per conoscere lei, che da più di cento anni serve liquori al bar delle Folies-Bergère.
La galleria, piccola, privata, ricchissima di capolavori che vanno da Botticelli a Modigliani, è quasi deserta ed io trovo un posto tutto mio su un divanetto proprio davanti al quadro.
Sospiro e mi sento felice. Autenticamente e pienamente felice.
Non è la prima volta che attraverso l’Europa per incontrare le tele di Edouard Manet: dal Grand Palais di Parigi nel 1994 per una mirabile mostra sulle origini dell’impressionismo che includeva alcune delle sue opere più importanti (e no, per piacere, non dategli dell’impressionista, perché mi arrabbio) alla fondazione Gianadda di Martigny per quel ritratto di Berthe Morisot con il mazzolino di violette che sempre mi commuove, l’arte di Manet ha sempre esercitato su di me un richiamo potente.
Mi siedo, mi abbandono contro lo schienale del divanetto e lascio vagare lo sguardo dalle campiture ampie e nere dell’abito di Suzan ai colori accesi delle arance e delle bottiglie di liquore in mostra sul bancone.
Le luci sono affidate allo scintillio dei lampadari, l’ambientazione è ricostruita alle

spalle della ragazza grazie allo specchio in cui Edouard falsa la prospettiva, come solo un grande artista può permettersi di fare.
Non è straordinario come la figura di Suzan sia perfettamente frontale mentre quel che vediamo riflesso nello specchio alle sue spalle riprenda la scena davanti a lei di tre quarti?
Ah, ma al grande Edouard perdoniamo tutto. Al grande Edouard permettiamo tutto.
Un po’ come le sue donne facevano con lui, bon bourgeois di ottima famiglia, elegante nei modi e nel vestire eppure primo, vero, autentico rivoluzionario dell’arte moderna che ha spalancato le porte alla contemporaneità.
La folla dei clienti delle Folies-Bergère restituisce intatti alle mie orecchie il chiacchiericcio ininterrotto, la musica, le risate, i moti di stupore e meraviglia alle acrobazie della trapezista di cui vedo solo le gambe, che spuntano insolenti alla sinistra del dipinto.
La macchina del tempo esiste: è una tela magica che dalla Londra del 2007 mi fa tornare alla Parigi del 1882 al prezzo modesto di un volo low cost.
Il doppio “bip” del telefono mi fa tornare alla contemporaneità: con un messaggio, le amiche mi avvisano che sono arrivate e mi aspettano fuori dalla Galleria.
Saluto educata Suzan e le dico arrivederci.
Fuori dal museo, un autobus di un rosso sfacciato ci inghiotte per risputarci a Piccadilly: luci, suoni, turisti, birra scura e pesce fritto. Londra è anche tutto questo.
Ma ora so che se voglio fare un tuffo nel passato, nella Parigi che affronta l’ultimo decennio di un travagliato diciannovesimo secolo, posso farlo, grazie a un comodo divanetto, a una ragazza di nome Suzan e a un uomo che da oltre un secolo tiene fede al suo epitaffio: manet et manebit.

©Viviana Gabrini, 2017

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *