PAROLE AL MURO
Era marzo e il sole di metà mattina inondava la stanza, stanando le ombre e definendo i confini.
Tornavo a casa nostra, dopo settimane di separazione, carica di quell’ottimismo ottuso tipico di chi non vuole arrendersi alla più smaccata delle evidenze.
Tu eri girato di spalle, chiuso in un silenzio ostinato, mentre io argomentavo di noi. Non ti sei mai voltato verso di me.
Oggi è di nuovo marzo e me ne vado, per non fare mai più ritorno.
Oggi scrivo al ricordo di quelle parole dette al muro.
Ho iniziato il nostro viaggio portando con me una valigia colma di entusiasmo e qualche cerotto sull’anima. Ti ho preso per mano senza ascoltare chi mi diceva che sarebbe stato uno sbaglio; intuivo di essere all’inizio di un percorso dissestato ma ero forte dell’idea che saremmo stati capaci di tirare fuori il meglio dalle nostre anime malconce.
Ho iniziato a raccontarti chi fossi, quali percorsi avessi seguito prima che i nostri destini si incrociassero, ma presto mi sono accorta che non mi ascoltavi.
Allora ho ripiegato le mie storie, riponendole come se fossero abiti smessi cercando di convincermi che, in fondo, il passato è un terra straniera che non sempre è necessario condividere.
Ti ho cercato quando ti nascondevi nel buio di te stesso. Volevi che ti fossi madre, amica e amante, tutto allo stesso tempo: così ho rinunciato alla mia idea di amore inteso come identità per abbracciare un principio di differenza.
In cambio ho ottenuto un dolore sordo quando, delle quattro cose di me che ti avevo raccontato, due le hai presto dimenticate e le altre le hai usate come granate, sapendo dove colpire per ferirmi.
Ti sono rimasta accanto, anche quando mi respingevi urlando quanto fosse inutile spiegarmi la tua disperazione perché tanto io non avrei capito; mi sono fatta di pietra per arginare il tuo ridurmi l’anima in brandelli e rifiutare poi il confronto. Avevi sempre una sola ragione: la tua
Ho teso la mano a quel bambino che ho intravisto sotto la tua facciata apparentemente inossidabile. Ogni giorno ho scelto di restare, senza vincoli e senza contratti; senza pretenderne nulla di più di quanto che potevi darmi, spesso accontentandomi di quel che c’era.
Ripetevo a me stessa che alle persone facili vogliono bene tutti e che la vera sfida sta nell’amare i difficili, gli irrisolti.
Ho barattato i voli pindarici dell’amore ideale per un sentimento concreto, costruito di gesti prosaici e quotidiani.
Ho conosciuto la solitudine, in una stanza d’ospedale.
Sarebbe bastato veramente poco: una parola, un gesto, il provare a capirsi. Non c’è più stato nemmeno quello.
Perdonami se adesso non riesco ad esserti vicina, se non ti capisco, se la mia mente è lontana e la mia lingua, tagliente e cattiva, non perde occasione per recitare a voce alta litanie laiche gonfie di risentimento.
Ho smesso di rinunciare a tanta parte di me in cambio di niente.
© Maria Elena Poggi, 2017