SE CONSIDERI LE COLPE
Emma arriva per ultima, la faccia nascosta da un’orchidea ondeggiante, e soffoca un grido perché nel gruppetto radunato davanti al cancello del cimitero c’è Gérard, il primo marito della signora, il francese con la gestualità da mimo morto nel 74; no, non è lui ma suo nipote, il famoso Luc rispuntato qualche anno fa, le raccontava la signora. Capelli grigi pettinati all’indietro, mocassini. Voilà, andiamó. La giovane imbambolata che si stringe alla gola il giubbino con le unghie smaltate di rosso dev’essere Tatjana: una delle prime badanti della signora, ora compagna di Luc.
All’arrivo di Emma un soffio di gelo irrigidisce tutti, anche il vecchio imponente dalle folte sopracciglia, di sicuro Luigi, l’anziana secca e imbronciata che riconosce come Lia e il cinquantenne in giacca e cravatta con piglio da rappresentante e urna sottobraccio – ma certo, il figlio di Luigi.
Facce sparite per anni e riapparse dopo la morte del secondo marito – Oscar il re del pesce conservato, testone calvo e scuderia di auto sportive; la signora gliene parlava a lungo nelle sue telefonate fiume, dalla casa di Rapallo con le piastrelle indiane a foglia d’oro in bagno o da quella di Courmayeur, tetto di vetro e tappeti persiani fino in cucina. Emma ne ha un ricordo sbiadito, anche dei gemelli morti giovani. Stanno all’altro capo del filo lungo cinquant’anni, insieme agli album di viaggio che la signora le mostrava, i libri che le prestava quando era a servizio da lei.
«E io le ho detto zia, con la pellaccia che ti ritrovi non abbiamo speranza». Luc risponde qualcosa che Emma non coglie, dura d’orecchie com’è. Scoppiano tutti a ridere. Rievocano. Scampata a un disastro aereo per aver perso per un soffio il volo. Due infarti di cui uno a Mosca, Luc volato laggiù a rimpatriarla. Da ultimo il declino iniziato con i coniglietti Leone e Tigre arrostiti in forno, l’urlo di raccapriccio della badante.
Si incamminano su per la gradinata stretta fra pareti di loculi. In testa marcia Lia a passo di carica, ultima Emma, in soggezione. L’hanno sempre tenuta a distanza e non capisce perché. Scuse al telefono: ora dorme, ha visite, non può. Sospettosi, diffidenti.
Luc – pianó, attentà – si ferma a sorreggere Tatjana che continua a cadere dai tacchi alti. Mi porta a pranzo fuori, all’opera, alle mostre, raccontava la signora. Ha affittato un monolocale vicino a me e ci sta più che a Rouen.
Luigi sale reggendosi al corrimano. Ogni tanto si ferma, la lingua vaga nella bocca aperta. Entra con la chiave, diceva la signora, me lo ritrovo sempre in casa.
Eccoli davanti al loculo aperto. Posata l’urna, mormorano in coro l’eterno riposo. «Arrivederci ziá!» Arriva il becchino con secchio e cazzuola. Emma si curva con fatica per posare a terra l’orchidea. Luigi biascica da un consunto libriccino, se consideri le colpe, sentinelle in attesa dell’aurora.
Fuori dal cancello strette di mano, saluti.
«A domani alle cinque allora.»
«Avete chiamato per dare il codice fiscalé?»
«Come, come? Io no!»
«Mais non ti proccuparé! Basta che glielo porti domani, al notaió.»
Fingendosi in attesa dell’autobus Emma aspetta che si infilino nelle macchine, che le portiere sbattano e i motori si avviino, poi torna indietro. Il cancello, la gradinata da salire a passetti nell’odore di fiori decomposti.
Ora posso salutarla, pensa.
© Daniela Scudieri, 2016