AMETISTA
Se lei fosse stata un colore, sarebbe stata il colore viola.
Non un viola comune, plebeo come quello di certi fiori spontanei che orlavano, fra il verde sporco e i rifiuti, il bordo delle carraie che lui frequentava per consumare i suoi amori da poche lire.
No, lei sarebbe stata un viola patrizio, opulento: un viola ametista, della stessa sfumatura ruggente che prendeva il sangue di lui, quando la vedeva.
Appena lei appariva, un turbinio di capelli al vento, lui sentiva il sangue intonare un canto antico, nelle vene. Un canto cupo di possesso e di rabbia.
La amava da sempre, di un amore fastidioso come lo stridore delle unghie su di una lavagna.
Conosceva come si chiamasse ma le aveva dipinto addosso un nome nuovo: Ametista.
Era poco più di una ragazza, un foglio bianco ancora da scrivere, carico di promesse. Lui, invece, era un uomo cresciuto troppo in fretta, talmente in fretta da esser marcio prima di diventar maturo. Fallito in tutto, era solo un abile regista di film mentali: pellicole in bianco e nero, girate in presa diretta. Ametista ne era la protagonista indiscussa.
Nei suoi deliri onirici lui aveva costruito con le proprie mani la casa perfetta dove lei attendeva il suo ritorno.
Un rifugio dove tornare: lui rientrava e chiamava Ametista a gran voce, intimandole di tenere gli occhi chiusi e di indovinare quel che le aveva portato in dono. Lei, docile e curiosa, allungava le mani alla cieca a volte brancicando eleganti mazzi di calle, a volte scippando tavolette di fondente nero, il suo preferito.
Golosa e in silenzio, Ametista scartava l’involucro e addentava piano il cioccolato. Lui adorava guardarla mangiare, i piccoli denti regolari affondare nel cioccolato scuro, la bocca che si orlava di un’orma scura che presto lui avrebbe pulito, con piccoli baci umidi.
L’avrebbe stretta forte, indugiando con la punta delle dita sulla curva del collo, assaporando la tiepidezza levigata della pelle che si scalda al tocco, prima di fare l’amore.
Nel sogno lui era il suo bambino mai cresciuto, il suo amico, il suo amore, il suo tutto.
Tornava alla realtà nei giorni di scirocco, quando la incrociava per strada e non poteva fingere di non accorgersi che lo sguardo di Ametista passava oltre, trasparente ed estraneo. Allora il tempo sapeva di mare, marcio e salato. L’aria si faceva satura di elettricità. Un’onda che solo lui sentiva, un filo che lo tirava, lo spingeva, gli ordinava imperioso di rincorrerla, prenderla e possederla. Di farle male e di godere, di quel male. Il canto del suo sangue si faceva feroce, pulsava nei polsi ad un ritmo ipnotico.
L’amava, ma nei giorni di scirocco l’avrebbe uccisa.
Desiderava stringerla forte, assaggiare la sua essenza violacea fino a cancellarla. Sì, la prossima volta l’avrebbe fatto: l’avrebbe amata fino ad esalarla, come il fumo di una Camel.
Dopo l’avrebbe gettata via, ormai inutile: a cosa serve un’ametista spezzata?
© Maria Elena Poggi, 2016