LA STANZA
Quando era freddissimo era davvero freddissimo invece poi delle volte diventava caldissimo, un caldo insopportabile, un calore per cui non era ancora stava inventata una parola adatta, era una parola che volava e bruciava, una parola rossa ma non rossa, rossa tipo quando riscaldi il metallo tantissimo e prende quel colore che ti ustiona gli occhi e ti rimane nella retina e tutto quello che guardi dopo ha la forma del calore che ti è rimasto incastrato negli occhi. Dormivano vicini, la stanza puzzava tantissimo, certe volte vedevi gente nuova, certe volte vedevi questi corpi ciondolare, barcollare contro ai muri pieni di muffa e umidi, umidi di noi, di freddo e di caldo, di voci, delle rare risate che quando esplodevano esplodevano come delle immense deflagrazioni, delle bombe, delle cose che riempivano tutto di schegge, sono convinto che ci siano ancora schegge sì, pezzi delle nostre risate e dei nostri, sorrisi, del viso di quello pallido pallido che lo chiamavano Tom ma sicuramente non si chiamava Tom, o di Riassad che era arrivato un giorno con dei vestiti coloratissimi e che quando morivamo di fame certe volte ci dava l’eroina perché avevamo davvero troppa fame.
A volte mi ricordo come se fossimo degli insetti, era una gabbia di insetti, vivevamo come formiche o coleotteri strani, certe volte però forse sembrava che fossimo insetti bellissimi, farfalle stupende o animali col collo lungo ed elegante, dai colori sgargianti dalle interiorità infinite, quanti eravamo? Quanti ne sono rimasti? Vedo la luce grigia che filtra dalle finestre, che illumina le braccia bucate, i disperati, qualsiasi forma di vita che il mondo aveva in qualche modo rifiutato finiva per passare dalle nostre baracche, c’era quel piccoletto con i rasta che certe volte la notte quando lo guardavi aveva gli occhi sbarrati e tremava, una volta mi sono avvicinato e gli dato una pacca sulla spalla, si è voltato e guardandomi ho pensato che stesse per piangere o che forse piangeva, mi ha appoggiato la testa sulla spalla e io non mi sono mosso, sono rimasto immobile tutta la notte, avevo paura di romperlo, che un movimento troppo avventato lo avrebbe potuto distruggere.
Di giorno facevamo i lavori più subdoli, la notte stavamo vicini amandoci disperatamente, quelle mura orrende, quei pavimenti sporchi erano come un cuore dove abitavamo, era una forma di amore tra viventi, una necessità animale che trascendeva l’animale, io li amavo, ognuno di loro, amavo ogni barbone, ogni tossico, ogni storpio, ogni forma di vita disperata di un’unicità disarmante che finiva nel nostro cuore grigio e scrostato, la nostra tana, il nostro bunker dove lasciavamo fuori il mondo e vi dico che non era la droga, vi dico che era qualcosa di più, era essere umani, mentre le barriere crollavano, le difese dei nostri nervi scoperti, dove lasciavamo scorrere ognuno, ogni anima nelle nostre vene nerissime, dove i nostri cuori urlavano, sbraitavano cose a una intensità impossibile, a una luminosità accecante.
Mi ricordo di lei, mi ricordo che era piccola e aveva le mani piccole, la prima volta che entrai era rannicchiata sopra una coperta, era una notte freddissima, abbiamo fatto l’amore, l’ho protetta, ho provato a proteggerla, passavamo le ore appoggiati alle nostre mura, passavamo le ore vicini senza dire una parola, come bestie che strusciano i musi cercando un qualche calore, che io ero lì, che io sarei stato sempre lì lei lo capiva dal mio odore.
Un giorno sparì, dopo due settimane la trovarono in un altro posto, le avevano fatto del male ma io spero che fosse solo morta, che non se ne fosse accorta perché delle volte ci penso e mi metto a urlare, aveva gli occhi aperti quando l’ho vista, la polizia diceva percosse e overdose, mi ricordo la sensazione delle mie mani sulla sua pelle fredda e pallida, mi ricordo i suoi occhi, quegli occhi che scintillavano nelle nostre notti con l’odore dolciastro e chimico della coca cucinata, con le luci delle pipette a illuminare gli angoli più bui del nostro universo, mi ricordo i suoi capelli, i suoi capelli sparpagliati sul pavimento come un cuscino, come il movimento di una medusa nell’istante che precede la spinta.
Quando l’ho baciata sulle labbra il poliziotto ha abbassato lo sguardo, le sue labbra erano dure e viola, però sentivo il sapore, però sentivo il ricordo, le lacrime mi sono scese sulle guance fino ad inumidirle le labbra, ho sentito il sapore salato, c’è stato un piccolo calore, ho pensato per un istante che si sarebbe alzata, mi avrebbe dato la mano, mi avrebbe seguito, non l’avrei più lasciata sola, mai più, mai più, mai più, mai più.Alla casa non sono tornato da quel giorno, non tornerò mai, certe notti mi chiedo che fine abbia fatto Tom o il ragazzino coi rasta o il tizio elegante che un giorno era uscito a comprare qualcosa e poi non era più tornato, certe notti non mi ricordo più nemmeno chi sono, a volte mi ricordo le sue labbra e le sue mani piccole, a volte il poliziotto, i suoi occhi che mi guardavano, la visiera a coprirgli il volto, a volte mi sveglio e penso che intorno a me ci sia ancora tutto quel mondo che invece adesso non c’è più, che non ritornerà mai più.
© Uduvicio Atanagi, 2016