
«Scappa!».
La voce le arriva in un soffio, la strappa dall’irrequieto dormiveglia in cui è piombata.
(Da quanto? Non lo sa, ha perso la cognizione del tempo).
Prova a muoversi sul tavolaccio di legno sul quale è stesa e un dolore lancinante quasi la taglia in due.
La voce si fa più perentoria: «Scappa, adesso!», due mani la scuotono, Anna sente la testa ciondolarle sul collo. Un’altra fitta, una scarica di adrenalina: è sveglia.
Ora, delle mani le frugano addosso, rapide come le ali di un uccello quando spicca il volo. Nella semioscurità la donna coglie un piccolo bagliore, un riflesso cui si accompagna un suono soffocato, come di stracci che si lacerano.
«Anna, svegliati! Scappa!».
È in piedi, ora. Confusa e intontita, si guarda intorno e non comprende né dove si trova, né da dove venga quella voce che la scuote e la chiama per nome.
Si sforza di pensare, la testa le duole e pulsa. Brandelli di frasi le risuonano nel cranio, il pensiero li segue arrotolandosi su se stesso, cercando di afferrare il bandolo di quell’incorporea matassa.
(Che ore sono? Non lo sa).
«Anna…». La voce è supplichevole ora.
Di riflesso tende le mani nel buio, cercando; i suoi palmi brancolano per qualche secondo, presto si scontrano con un’escrescenza gibbosa, poi vengono investiti da un alitare caldo e affannato.
In un gesto repentino di ripulsa, Anna ritrae le mani: ha riconosciuto quel volto.
È Deodato, lo scemo di Cogno San Bassano. (Ma com’è possibile?)
I pensieri le affiorano alla mente lenti, sono come palombari che riemergono dopo una spedizione nel cuore del mare.
Era uscita prima dell’imbrunire, per il solito giro di perlustrazione a Farini.
(Quando? Ieri? La settimana scorsa? Non riesce a ricordare).
L’aria, dopo la pioggia, era così dolce e bella che le era venuta voglia di camminare, prima di inforcare la bicicletta e correre verso il paese.
Aveva raggiunto la Nure per costeggiarne la riva mentre si beava dello spettacolo di colori che un pittore di talento pareva aver tratteggiato solo per lei. Era sola, per chilometri, ma non aveva paura.
Le staffette partigiane, quelle sì che dovevano stare attente, con i documenti arrotolati stretti nascosti nei tubi cavi delle loro biciclette.
Anna non aveva addosso nulla di compromettente: l’avanzo di profumo da due soldi che indossava non era ancora illegale, e neppure i suoi occhi, bui come il nero del turacciolo bruciato.
Prima, in quella vita di prima…
(C’era davvero stata una vita, prima? Prima dei bombardamenti, della sirena stridula dell’antiaerea, della polvere che risaliva dalle macerie… non riusciva a ricordare altro).
Anna incedeva fra le altre ragazze come se fosse una regina; le sovrastava di una testa almeno, con il suo metro e settantotto di imponenza e quegli occhi scuri, pieni d’ombre.
Non aveva fegato, per fare la staffetta; ma aveva fianchi larghi sui quali gli uomini, mentre sollevavano deferenti il cappello in segno di saluto, lasciavano correre lo sguardo, quando passava lungo il Corso Italia
(in quell’altra vita).
Non era per il coraggio che Max l’aveva arruolata. Doveva solo sorridere e annuire, seduta al caffè di quel paese di montagna, occupato dai tedeschi.
Doveva famigliarizzare
(…prostituire l’anima…)
con i soldati, tenere le orecchie ben aperte e ascoltare tutto quello che dicevano, fingendo di non capire.
Dopo, avrebbe riportato ogni cosa al comando partigiano, senza correre troppi rischi.
Così le diceva Max, mentre la teneva abbracciata stretta e sapeva di aver già vinto, perché Anna a lui non aveva mai saputo negare nulla e di certo non avrebbe iniziato allora.
Anna rivolse lo sguardo a Venere e la pregò, muta: “Aiutami tu”.
«Anna, presto: devi andare, ora!». La voce di Deodato la fa trasalire.
Lo scemo ha ragione, se ne deve andare. Ci sarà tempo dopo, per ricordare.
Muove un passo, si ferma: le fa male ovunque. Si guarda le braccia, sono piene di graffi e lividi. Ora che è sveglia sente le labbra pulsare e dalla gola le risale il sapore ferroso del sangue.
La ragazza si volta a guardarlo: «Andiamo».
«Io resto, devo restare».
«Saranno rabbiosi, ti faranno del male».
«Io sono lo scemo di San Bassano, non penseranno a me. Io sono invisibile. Come un cane, una bestia selvatica, che di sicuro non capisce. Io, per loro, non esisto. Vattene, possono tornare da un momento all’altro».
«Perché l’hai fatto?».
«Ti ha portato dentro lo stanzone che eri svenuta, sapeva che ero nascosto in un angolo. Non ha detto niente, non mi ha scacciato. Ti ha picchiata, ti ha insultata, ti ha chiamata “piccola puttana italiana”. Tu non reagivi, io non respiravo, non potevo muovermi. Gemevo piano, poi è arrivato uno dei suoi a chiamarlo, e se n’è andato. Io tremavo, ho avuto paura che ti avesse uccisa davanti a me. Davanti allo scemo di Cogno, l’inutile bestia che non parla, che non capisce. Mi voleva suo complice, in una sua contorta maniera».
«Deodato…».
«Scappa, Anna. Questo tempo sta per finire. Sulle montagne le voci ora corrono veloci, parlano di insurrezioni e libertà. Non fare che sia vano, non permettergli di prenderti…».
La donna guarda il ragazzo e per la prima volta lo vede al di là dei lineamenti ributtanti, del pregiudizio di paese che l’etichetta di scemo gli ha cucito addosso fin da quando era solo un bambino.
Anna raggiunge zoppicando la porta e si lascia inghiottire dal buio.
Venere, dietro il suo manto di nuvole, l’osserva distante scolorire e sparire fino a fondersi con le ombre degli alberi.
Viandante,
quando sali al cospetto di una montagna che fece la Resistenza, fai silenzio e abbassa il capo, mettiti in ginocchio, raccogli un ciottolo dal sentiero, stringilo fra le tue mani, all’altezza del cuore.
Portalo all’orecchio e sussurrargli di raccontarti la Storia, quella con la esse minuscola, degli uomini e delle donne che sacrificarono tutto per la nostra libertà.
Ora e sempre, Resistenza.
©Maria Elena Poggi, 2024 (tratto dall’antologia Niente per cui uccidere, Calibano Editore)
©Foto Maria Elena Poggi