Il testamento di Milada Horàkovà

Dondolo, com’è normale per un impiccato, anche se in giugno a Praga è bellissimo e pare che la vita non debba mai finire. 
Ho ancora un attimo di tempo e in quello capisco come funziona  la morte: il ricordo diventa un filo di bava luminoso, ti prende per mano e ti porta rapidissimo ai sedici anni del liceo e alle prime proteste pacifiste. I primi scontri con le autorità.
Ci sarà, un’autorità, adesso, nel mondo che sto per incontrare?
Che gioia, ho appena visto la mia laurea in giurisprudenza, ero quasi bella e ho toccato i miei sogni.
I sogni ci sono sempre, eccoli, quelli la morte non può prenderli: cominciano a volare ed entrano nella testa di qualcun altro. 
Chi vuole accogliere quelli di Milada, nel giorno dell’esecuzione della sua condanna?
Nella mia testa che ciondola e nel mio corpo oscillante c’è la Resistenza e la Gestapo.
Mi presero nel 1940, mi torturarono come consueto e di norma provarono a piegarmi.
Non potevano, non c’era niente da piegare: la libertà non ha una forma.
E io riuscii straordinariamente a resistere.
Ma neanche cinque anni in un campo di concentramento bastarono per ottenere quello per cui avevo combattuto.
Eppure anch’io ho avuto giorno felici.
Vedo ora i miei tre anni di vita! Li vedo chiaramente e sento sul volto la primavera.
Dal 1945 al 1948 a volo sulla Cecoslovacchia ho ritrovato i diritti delle donne e degli ultimi. 
Ho amato con un corpo che aveva di nuovo umanità e decoro.
Splendevo.
Il colpo di stato comunista fu la fine dell’umanità.
Le dimissioni dal parlamento.
Quale parlamento, quale governo, quale Cecoslovacchia.
Nessuno poteva più togliermi niente, dopo che avevo ritrovato il senso delle cose. Dopo lo splendore.
Non accettai di fuggire da Praga: vai tu, mio amore, e porta via nostra figlia, che sedici anni sono pochi per vedere impiccare una madre.
Io resto a prendermi quello per cui ho combattuto.
Ora però vorrei che tutto finisse.
Mi vedo nell’aula del tribunale.
Spionaggio. Tradimento. Cospirazione. Nomi che non conosco.
Mi basterebbe dire di no.
La mia voce è alla radio, dal governo fantoccio sono fatta esempio di viltà.
Sorrido.
Io non me ne vado.
Resto a prendermi quello per cui ho combattuto.
I grandi supplicavano per la mia resa, Churchill, Einstein, Roosevelt: uomini a cui la mia volontà era sconosciuta e che lottavano per tenermi in vita.
Io però tenevo la testa alta: volevo la mia maledetta forca.
Eccomi.
Sorrido al boia: giusto un attimo fa. 

Io, Milada Horàkovà, di anni quarantotto, alle 6 del mattino del 27 giugno 1950, dopo aver fatto tutte le guerre, dondolo nel cortile del carcere di Pankrác a Praga.
Com’è normale, per un impiccato.

©Roberta Lepri

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