
Il sole inondava l’enorme stanzone nel quale la Lady espletava molti dei suoi numerosi compiti. Il calore entrava da una finestra di dimensioni monumentali posta esattamente dietro una pesante
scrivania di mogano con piano in pelle, ingombra di fogli, libri, album e matite colorate. Le tende erano tirate in attesa che ella palesasse l’umore del giorno, perché nel caso fosse stata nervosa il sole avrebbe solo acuito il senso di stizza e peggiorato l’approccio coi suoi sottoposti, meglio la penombra, inoltre sfina e ciò non dispiace a una signora.
La Lady si sedette, meglio, sprofondò su una scomoda poltrona dura come un materasso ortopedico e quasi rimbalzò su quel tessuto lucido, decorato con fiorellini indefinibili, rosa con gambi
dorati, un accostamento che aveva odiato dal primo giorno in quello studio. Aveva sfoggiato i migliori sorrisi seduta su quel trespolo, aveva finto di essere a proprio agio, recitato con grazia una
delicatezza d’animo che non aveva mai avuto, era stata tutto ciò che ci si aspettava da lei perché così è tutto più facile. Una donna al potere non diventa certo un Re o un Generale, e neanche un
agitatore politico tutto nervi e potenza, no, una regnante resta comunque una signora, assertiva con eleganza, mani conserte sulle gambe ben serrate, schiena dritta, sguardo deciso, mai languido o
sfuggente. Un’assenza di decenza e dignità è sempre tollerabile in un condottiero ma in una donna diventa sciatteria e il popolo smetterebbe di temerla, abbandonandosi al ludibrio, sarebbe la fine.
Sola, seduta nella penombra di una stanza enorme che amplificava le dimensioni ridotte del suo corpo, i piedini da bambola avvolti da calzature senza tacco, i capelli sempre reduci da trattamenti estenuanti che le ricadevano sulle spalle, stanchi e ondulati dall’ultimo chignon, le mani, gonfie per la ritenzione, sempre
conserte per abitudine a un dignitoso contegno, lo sguardo puntato sul tavolino da tè sempre apparecchiato come un soldato che dorme in divisa anche quando la guerra è finita. Ma per la Lady la guerra non finiva mai, neanche quando il popolo la acclamava, cercava la benedizione di quelle dita gonfie, benedicendola di rimando con frasi d’amore, sigillo di un’eterna infatuazione illusoria.
Con passo incerto entrò il valletto «chiedo scusa, la piccola vorrebbe entrare per salutare la mamma», la Lady osservò pigramente l’ombra lunga di quel messo titubante alle sue spalle e fece solo un cenno
con una mano, interpretato come un via libera.
L’uomo uscì modulando i passi in modo tale da non emettere un rumore eccessivo con la suola delle calzature su quel pavimento lucido e molto scivoloso. Rientrò introducendo una figuretta
piccina, graziosa, con una testolina tonda e armoniosa, sormontata da una sorta di diadema con decorazioni che sembravano due orecchie di gatto su una chioma bionda, leggerissima, quasi un
piumaggio. La bimbetta si avvicinò senza timore, col sorriso furbo di chi sa che sarà impunito per sempre, si fermò davanti alla madre e fece un leggero inchino vezzoso, mezzo giro da un lato per far
svolazzare la gonnellina, il ginocchio piegato davanti alla gambina, le manine chiuse sul tessuto ne accompagnavano il giro sull’esile corpicino. Uno sguardo compiaciuto verso l’uomo rimasto sulla
porta, vedi? Io posso entrare quando voglio e tu no.
La Lady si compiaceva sempre di quella leziosa presunzione e pensava, un giorno tu sarai qui al posto mio, regnerai su un popolo totalmente
Assoggettato
Devoto.
Considerava un dovere imprescindibile agire in modo tale da eliminare definitivamente i germi di quelle assurde agitazioni, poteva far di meglio che schiacciare le irricevibili pretese di miserabili cellule di rivoltosi isolati, poteva normalizzare il suo pensiero, rendere proverbiale ogni sua posizione, ribaltare le leggi della fisica se voleva, diventare essa stessa Il Canone. Guardava la piccola sé stessa che le mostrava il vestitino nuovo e pregustava quel futuro che con tanta perseveranza le stava preparando, osservava il profilo di quella figlia, un nasino così volitivo, una fronte alta e squadrata, uno stampo da decisionista, una evoluzione di Lady che da piccina non era certo così perché non era mica nata per fare la regina:
questo il popolicchio non lo sapeva apprezzare, per questo le stava dando tutti quei problemi.
Devi dire quella cosa, devi fare quell’altra, quel simbolo non va bene, ma certo decidete voi di quali colori sarà la mia camicia da notte, decidete pure se posso portare mia figlia in viaggio con me durante le visite ufficiali, e già che ci siete, decidete con quale modello posso cercare il sollievo di un parossismo isterico, quando mi ritrovo tra le coltri ghiacciate del mio letto enorme di regina senza re.
Devi dire questo, non dire quello.
E invece sarebbe stata lei a stabilire cosa il popolo avrebbe desiderato e lo avrebbe fatto facendo passare i suoi messaggi con spudoratezza attraverso qualunque canale d’informazione in suo potere, avrebbe creato nuovamente la vita come aveva fatto con sua figlia: avrebbe plasmato i desideri e i bisogni collettivi come fossero creature sue, grazie dalle sue abilità strategiche. E ne aveva di abilità, non si diventa Lady senza saper manipolare la percezione del mondo di un popolo che si credeva libero e democratico. Però ci vuole tempo e dedizione per lavorare bene su ogni tavolo e di tempo lei ne aveva.
Intanto la piccola si era seduta graziosamente alla scrivania materna e aveva cominciato a colorare i vari fogli sparsi sull’enorme superficie in pelle dopo aver spalancato le pesanti coltri che bloccavano la luce fuori dalla finestra. Ormai quel calore non poteva più nuocere all’umore e alla sofferenza mentale della madre che si era già rinfrancata da ogni pensiero funesto guardando la sua bella discendente.
Il valletto era fermo sulla soglia e guardava con leggera preoccupazione il gioioso disordine che produceva senza sosta la piccola, colorando e canticchiando canzoncine con una vocetta deliziosa. Appena fu certo che la situazione non arrecasse ulteriore malumore alla Lady entrò nuovamente e le ricordò che i consiglieri stavano per arrivare e forse sarebbe stato il caso di predisporsi alle penose incombenze del mattino chiedendo alla bambinaia di accudire la piccola.
«Sì, giusto, chiama Adelaide e fai in modo che la piccola principessa si diverta, grazie Edmondo.» disse con aria stanca, sottolineando la parola “principessa” con un sorriso forzato rivolto alla piccola.
La figlia abbandonò la postazione appena guadagnata, corse ad abbracciare la madre e diligentemente saltellò fuori dalla stanza.
Edmondo introdusse il medico. La Lady lo aspettava, ancora seduta sulla scomoda poltrona che dava le spalle alla porta, si girò appena e fece cenno con la mano all’ospite che con sicurezza espletò i vari salamelecchi di saluto e prese posto sul divano di fronte alla donna.
«Allora, ha fatto gli esercizi in questi giorni?» chiese distrattamente, mentre leggeva alcuni documenti che aveva estratto dalla borsa.
«Sì, li ho fatti, li ho rifatti, li ho ripetuti e ancora nulla, non riesco.» rispose lei, avvicinandosi un pugno alle labbra come se volesse mordersi e mortificarsi, perché le sembrava impossibile non riuscire a violentare la propria natura avendo sempre mostrato una volontà straordinaria.
«Va bene, si rilassi, possiamo ancora provare delle strade alternative.» disse lui con tono comprensivo e consolatorio.
«Lei dice? Mi pare di aver tentato ogni strada.» rispose lei.
Improvvisamente lo stava colpevolizzando, gli stava gettando addosso tutto il disappunto del proprio fallimento.
«Mi meraviglio di lei, non vorrà certo arrendersi? Proprio in virtù di tutti gli sforzi che abbiamo fatto, dico, lei non può cedere adesso» si infervorò il dottore senza neanche fermarsi a pensare come la belva ferita avrebbe potuto reagire intendendo quell’incoraggiamento come un oltraggio.
«Ma io sono sfinita, lo capisce?» rispose la Lady alzando il tono della voce come una bambina indispettita, quasi temendo di essere inondata da lacrime ghiacciate di disperazione.
«E allora mi permetta di provare ancora, la prego, me lo lasci fare, sento di essere vicino a guarirla» la implorò lui con sincera afflizione per il dolore che leggeva in quegli occhi profondi come un pozzo
nero.
«Io non lo considero guarire, capisce? È una cosa innaturale per me ed è ingiusto che io debba… io sono il capo, dovrei decidere io cosa ci si aspetta dal mio ruolo, non sono mica una sguattera da osteria, sa? Comunque al momento questo problema mi sta creando talmente tante preoccupazioni che non mi consente di occuparmi delle questioni che mi stanno più a cuore, quindi, se lei pensa di potermi aiutare, va bene, estragga questo maledetto oggetto infetto da me, faccia ciò che ritiene giusto, le conferisco tutto il potere necessario, da adesso.»
«Procediamo allora, si rilassi, le praticherò l’ipnosi e lei potrà liberarsi.»
Liberare l’infezione.
La Lady si abbandonò sulla poltrona, le gambe scivolarono in avanti, la testa si abbandonò sullo schienale, gli occhi rimasero aperti, spalancati su un baratro immaginario, dopo pochi minuti riusciva a sentire solo le parole del dottore.
«Quando avrà finito di contare visualizzi una scala, dovrà salire su quella scala, salga, adesso, scalino dopo scalino, non avrà paura di nulla. Si fermi sul ballatoio, davanti a lei c’è una porta.»
«C’è una porta…» ripeté lei meccanicamente.
Il dottore la guidò in una soffitta piena di scatole, la indusse ad aprirne alcune e le fece trovare meraviglie, gioielli, giocattoli, dolciumi, immagini di vita felice, la vide sorridere, era rilassata, era felice, era il momento.
Facciamolo adesso, ce la può fare, stringa quell’orsetto di peluche e ripeta con me:
“sono antifascista”…
©Ale Ortica