Schadenfreude*

La notizia mi arriva mentre sto faticosamente riemergendo da una nottata difficile e per niente riposante, costellata di colpi di tosse che mi hanno squassato senza interruzione e da frammenti di sogni, che definire angosciosi è un eufemismo. Sto ancora boccheggiando tra i fumi della nebbia post-alcolica e cercando di constatare che il velociraptor assetato di sangue che mi inseguiva nella brughiera è solo un residuo dei troppi bicchieri, quando lo sento. Il tin del cellulare che mi annuncia il messaggio. Subito, resto lì stravaccato, un gustoso sapore di fogna in bocca e la lingua spessa come un tappeto. Sono incerto se leggerlo: non ho nessuna voglia di immergermi nei casini del lavoro quando non ho ancora ben realizzato se sono vivo o no. Sto già maledicendo la disinvolta abitudine del mio capo a considerare il fatto che io possieda un cellulare come un’implicita autorizzazione a irrompere nella mia vita a qualsiasi ora, notte e giorno, festività o non festività. Poi, con un solo occhio semiaperto e uno sbadiglio a slogamascella, getto un’occhiata svogliata allo schermo e vedo che invece il messaggio arriva da Mina. No, non la cantante: la mia ex. Che in realtà si chiama Federica, ma data la voce non male che le piace sfoggiare quando il suo tasso alcolico è vicino al livello di guardia, si è beccata il soprannome. Che tutto sommato non le dispiace.

Insomma, apro il messaggio e quello che trovo è solo un link. Senza una parola di spiegazione, il link e basta. Non fosse che me lo manda Mina, penserei che è un tentativo di phishing, ma lei è sempre stata una persona corretta. Anche quando ci siamo piantati. Anzi, quando l’ho piantata, tolto un primo periodo di freddezza. Peraltro giustificata: la mia storia con Franca proprio non le era andata giù. Dopo, siamo lentamente tornati a rapporti più o meno normali. Cioè, dopo un paio di mesi in cui se ci incrociavamo in ufficio lei si voltava dall’altra parte o s’infilava nel bagno per non guardarmi. Prima abbiamo ripreso a salutarci, a mezza voce. Poi, capitava che ci trovassimo in ascensore, davanti alla macchinetta del caffè o alla fotocopiatrice. All’inizio senza una parola, tutti e due con occhi sfuggenti e mani strette sulla cartellina, o sulla borsa. Poi, qualche monosillabo di circostanza, poi le frasi banali sul meteo. Insomma, piano piano siamo arrivati a un rapporto civile. Formale, ma via via più disteso. E l’anno scorso mi ha fatto pure gli auguri per il compleanno. E quando quel bastardo di Lorenzo mi ha fatto il pacco che mi è costata la promozione, mi ha persino dato una pacca sulla spalla, di straforo nel corridoio. Una signora, devo dire.

Quindi, se mi manda un messaggio – il primo dopo due anni – un motivo ci sarà.

Lascio da parte i dubbi e clicco sul link.

Un attimo di schermo nero e poi si apre un video. Subito, non capisco bene. Vedo movimenti confusi, qualcosa di chiaro che si muove troppo velocemente per riuscire a capire. Poi l’immagine si blocca e quello che vedo mi fa svegliare del tutto.

È l’ufficio del direttore. Che è ripreso di profilo, dietro la scrivania, ma in piedi. L’immagine è mossa e un po’ fuori fuoco, chiaramente si tratta di una ripresa clandestina, con il cellulare. Il sonoro non è chiarissimo, ma abbinato al movimento delle figure, diventa inequivocabile.

La voce inconfondibile del direttore – già normalmente abbastanza stentorea – è di parecchi decibel sopra il normale. E per di più, leggermente alterata. Fuor d’eufemismi, è incazzato come una iena. Si vede gesticolare a scatti rabbiosi, la mascella prominente puntata al di là della scrivania, ma verso chi non si vede. Poi l’inquadratura si sposta – obliqua, evidentemente per non far vedere che si sta riprendendo – e l’oggetto della sfuriata viene messo a fuoco. È proprio lui, Lorenzo-il-bastardo. Il carrierista emergente. Ex-emergente, perché ora come ora sta facendo un simpatico crawl in un sontuoso mare di merda. Riesco a cogliere solo poche parole sparse: contratto saltato, irresponsabilità, dilettante, ma mi bastano per ricostruire. Si era vantato come un pavone per aver concluso con i cinesi, straparlava di quattro-cinque milioni – minimo! – di incremento del fatturato. Evidentemente, qualcosa non ha funzionato come lui sperava.

Dev’essere stata una bella botta, di quelle che restano e ti segnano per sempre.

Non direi che è uno che sa perdere, Lorenzo. Diciamo che non è tra le sue doti migliori, come non lo è la modestia. Certo, sa anche essere gentile, educato, persino servizievole… se sei il capo. O comunque qualcuno che può essergli utile in qualche modo.

A suo tempo, ha fatto carte false, per riuscire ad occuparsi lui del contratto con i cinesi. Soffiando il posto a me, che mi occupavo dell’estero da tre anni e di esperienza con la Cina ne avevo già. Ci si è messo d’impegno, il bastardo. Leccate di qua e di là, commenti apparentemente casuali sulla mia presunta incompetenza, pettegolezzi malevoli sulla mia vita privata. E a coronamento del tutto, alla golosissima segretaria personale del capo, cioccolatini di alta pasticceria, con annessa sorpresa: infilati con discrezione nella enorme scatola due biglietti omaggio per un weekend di relax in una Spa sul lago. È poi risultato evidente che la signora ha apprezzato molto, facendo in modo di lasciar cadere qualche opportuno suggerimento nelle orecchie giuste.

A ripensarci, mi incupisco. È passato un bel po’ di tempo, ma mi brucia ancora.

Mi sfugge un sospiro, poi il dito mi scorre a far ripartire il filmato e me lo riguardo con calma, gustandolo fotogramma per fotogramma, in particolare la faccia paonazza del malcapitato, quando il capo sillaba un in-com-pe-ten-te da sfondare i timpani. Osservo con l’attenzione di un entomologo le labbra che gli tremano, gli occhi che si alzano dal pavimento dov’erano rimasti inchiodati e rimbalzano disperati dalla scrivania al soffitto, alla finestra, alla porta misericordiosamente chiusa. Si starà chiedendo se fuori i colleghi stanno ascoltando. La risposta naturalmente è sì, le pareti sono di carta e la voce del capo non è proprio un sussurro.

Giurerei che sta sudando come un maiale, e il suo consueto stile tra lo spocchioso e il leccato è soltanto un  ricordo: la cravatta di solito impeccabile gli pende storta da una parte, le labbra sono afflitte da un visibilissimo tremore, le dita si affannano sulla fronte a sistemare un ciuffo che non ne ha nessun bisogno.

Allontano e metto in pausa il cellulare per cogliere meglio l’insieme della scena, soffermandomi goloso su ogni magnifico dettaglio.

Lo so, che non dovrei ridere.

Però non riesco proprio a farne a meno. Mentre non provo neppure a trattenere lo sghignazzo che mi si affaccia prepotente sulle labbra, penso che dovrò mandare a Mina una confezione gigante di cioccolatini, se l’è meritata.

***

* In tedesco, indica il piacere provocato dalle disgrazie altrui.

©Euro Carello 2025

Foto di Tomasz Mikołajczyk da Pixabay

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