Casting

Cettina era sola nella Grande Città, con i suoi diciannove anni, diploma da estetista e il sogno di sfondare. Per la prima volta nella sua vita era sola. Non c’era la nonna che le aveva insegnato tutte le
cose importanti della vita, non staccare mai il cordino dell’assorbente interno altrimenti sei fottuta, le mestruazioni non si fermano se fai il bagno, la merendina confezionata è mezza vuota, il bacio a stampo solo dopo i sessant’anni. Non c’era l’amica di sempre, Annuccia detta Garibaldi, perché si tagliava i baffetti col rasoio e a quindici anni non le si vedevano più le labbra. E papà, espressione malinconica su un viso stanco, rugoso, mai stato giovane, un proverbio per ogni occasione.
Sarebbe stata felice di ricevere un rimbrotto dalla mamma, per non provare un senso di vuoto, ma la verità era che aveva lavorato tanto per ottenere quell’occasione, pochi soldi, un biglietto del treno e
qualche risparmio per una pensioncina dalle monache, vicino al Vaticano.
Avevano aperto i casting, al telegiornale ne parlavano da mesi e adesso anche lei aveva l’occasione di presentarsi alla selezione. Era una questione di doti naturali, di conoscenza profonda della materia,
di background culturale. Non si sentiva bella, non sarebbe mai diventata una tiktoker, non si truccava e aveva pochi vestiti, ma non si era mai arresa all’irrilevanza perché rincorreva un sogno: diventare
parte della Grande Città.
I pochi soldi non erano sufficienti per fare tre pasti al giorno, ma quella mattina era speciale, quindi entrò in un bar con la sua lunga treccia nerissima, gli occhi luminosi e incorniciati da una corona di ciglia impettite e le guance rese rosee da qualche pizzicotto, consiglio della nonna per emulare l’effetto fard.
«Un croissant, grazie prego…», no, era “per favore, un croissant, grazie”, si rese subito conto del primo passo falso della giornata, ed erano solo le 7.00.
«Dica», rispose quasi cantilenando un cameriere alto, magrissimo, già indiscutibilmente stanco della vita.
«Dicevo, an croissant, grazie.»
«An de che? Ahó, dica…»
«Croissant… la brioscia… u’ maritozzo… giovanotto, non tenete niente da mangiare?»
«Signori’, va bene un cornetto?»
Cettina consumò il suo cornetto e cappuccino come aveva sempre sognato, accovacciata su un trespolo a ridosso del bancone del bar Mariuccio. Difronte a lei un grande specchio dietro le bottiglie di
superalcolici, che le restituiva l’immagine di sé stessa, perfettamente abbigliata per il suo primo colloquio di lavoro. Si sistemò un foulard sulla testa, accuratamente annodato sotto la lunga chioma corvina e
il suo sguardo divenne malinconico, la bocca incurvata verso il basso, il mento tremante. Si concentrò sui ricordi dolci dell’infanzia, le braccia della mamma che si gonfiavano nello sforzo di lavorare
l’impasto, il profumo degli intingoli indissolubilmente attaccati a tutte le pareti di casa, tre generazioni di nonne che avevano avuto figli molto presto e la sorvegliavano sedute su sedioline di paglia, in
strada, sempre di vedetta. Lo sguardo della ragazza si faceva sempre più gravido di commozione, le pupille scure lampeggiavano.
«Dica, ma pure lei deve fa’ il colloquio?»
«Come lo ha capito, scusi?»
«Ahè, so’ Silvan! Vada signori’, guardi che stanno già a esamina’.
Comunque secondo me la prendono, è brava, sa?», il barista le fece una smorfia che poteva sembrare un sorriso o uno spasmo muscolare.
«Grazie assai, merci», rispose Cettina senza perdere l’ispirazione.
Chiuse il cappottino nero, si guardò un’ultima volta riflessa dietro il bancone e decise che era pronta e in grado di farcela.

La fila era lunghissima, partiva da un quartiere e finiva in un altro, sembrava avessero aperto i casting per un musical di Hollywood.
Cercava disperatamente di restare concentrata, pensieri malinconici, molto più utili di quelli tristi per mantenere una certa tensione emotiva. Pensa alla famiglia, si ripeteva, pensa alla pasta all’uovo, ma
nulla, quel motivetto non le usciva dalla testa. Si sentiva troppo eccitata, galvanizzata, il sogno, la Grande Città, i fianchi cominciarono a ondeggiare, gli occhi socchiusi in una speranza condivisa con centinaia di altri candidati intorno a lei. Mormorava quelle note senza neanche averne coscienza, labbra socchiuse, poi
qualche sillaba, la gioia si impossessò di lei. One… mmm mmm, le note fruivano dalla sua gola, singular sensation every little step she takes…
«Silenzio, qui c’è gente che si deve concentrare.»
Un buzzurro tozzo, con incipiente calvizie, vestito da pastore sardo, la rimproverava con veemenza. Avrebbe voluto rispondergli a tono ma in fondo gli era grata, era giusto che anche lei tornasse a una
postura dignitosa e pensasse al proprio colloquio.
Fece amicizia con altri candidati, ognuno con le proprie illusioni, la voglia di farcela, una speranza nel cuore. Per qualcuno, quell’occasione significava l’ultima spiaggia. Se non fosse stato selezionato, Gerry sarebbe dovuto tornare a casa, a Sassari, e ammettere che la moglie aveva sempre avuto ragione, dove diavolo pensava di andare? Dina fuggiva da una promessa di matrimonio che le era diventata odiosa, aveva fatto la fuitina con Antonio ma la prima sera aveva scoperto che gli puzzavano i piedi e ciò le era
intollerabile, così aveva deciso: se l’avessero presa, al paese non sarebbe più tornata. C’erano tante sue coetanee, ma anche signore attempate e molti uomini, perché quel ruolo era appetibile per tutti,
chiunque sognava le telecamere e la visibilità, il posto fisso.
Dopo sei ore di fila, ebbe accesso all’ufficio dove si tenevano i casting. Un ometto con i denti molto sporgenti, le orecchie paraboliche e una capigliatura scarmigliata, la attendeva in uno stanzino stretto e dominato da una grande scrivania in burocratico disordine. Topolino la guardava con occhi stupiditi, come se non avesse voglia di stare lì a esaminarla, le sorrise con la bocca ma non con gli occhi. Cettina era terribilmente in imbarazzo.
«Signorina, ha letto il copione? Come vede ci sono molti candidati, quindi proceda pure. Ha due minuti di tempo.»
La ragazza fece un rapido riscaldamento, inspira, gonfia il diaframma, espira, spalle chiuse, pensiero malinconico, tagliatelle di mamma, sugo di nonna, cinghia di papà e buona la prima.
Dopo un leggerissimo lamento gutturale, impostò la voce, inumidì leggermente gli occhi (mai piangere, rende le parole meno chiare), petto chiuso, testa inclinata di lato, quasi interrogativa.
«Non avete capito. Avete frainteso. Oh mio Dio, perché? Perché tanto odio?»
«Signorina mi scusi», la interruppe con tono impersonale Topolino, «”mio Dio” non c’era, si attenga al copione, per favore. Continui pure».
Cettina era ormai troppo concentrata e decisa per lasciarsi spaventare, così superò quel momento e riprese a declamare la sua parte.
«Perché tanto odio? Ma non ci fermerete, il vostro rancore…»
«Signorina, per favore, non inventi nulla, le ho detto. Non ha studiato la parte?» la interruppe nuovamente Topolino. Cettina cominciava a irritarsi. Dopotutto era un’artista nel suo campo, con
una dote naturale, un orecchio assoluto, e aveva anche studiato, aveva conseguito il diploma.
«Ho imparato la parte e sono preparatissima, glielo assicuro, ma tutte quelle ripetizioni sono veramente brutte, suonano male. Non si possono usare sempre le stesse parole, esistono i sinonimi…»
«Senta un po’, Bertolt Brecht, qui abbiamo un pubblico di bocca buona, bisogna interpretare l’uomo qualunque, parlare come parlano loro, farli sentire uguali a noi. Chiaro? È Stanislavskij, capisce?»
Cettina, da ottima professionista, non si lasciò condizionare dal malumore e continuò il suo monologo «…ma non ci fermerete. Il vostro odio non ci fermerà. Lo dico a quelli che cercano di censurarci. Ci censurano, ci impediscono di parlare, perché ci detest… perché ci odiano. Siamo stati decontestualizzati, non avete capito.»
Topolino sembrava più rilassato ma ancora dubbioso.
«Signorina passi al secondo estratto. E ricordi, Stanislavskij, immedesimazione, mi dia più sagra paesana, più rutto, mi dia più verità.»
Cettina sgranò gli occhi, ebbe appena il tempo di rendersi conto che il latte del cappuccino stava fermentando sotto l’effetto di una colica di nervosismo, dovuta ai rimproveri dell’esaminatore, quando un
peto sfuggì dai recessi della sua gonna scura, a sottolineare l’ultima frase dell’interlocutore. Topolino si immobilizzò, la fissò con uno sguardo imperscrutabile, incurvò le sopracciglia e disse «vede che lo
sa fare? Stanislavskij, signorina. Si immedesimi nella nostra base elettorale. Continui pure.»
Cettina si sentì galvanizzata da quel successo, capì che era stata presuntuosa nel tentare di imporre la propria versione del copione e poi c’è sempre da imparare.
«Parto col monologo del Malox?»
«Sì signorina, simuli una leggera commozione e parta da “la Sinistra rosicona ci vuole fermare perché noi stiamo facendo il bene del Paese”, voglio che mi sottolinei bene “rosicona”».
Cettina, prefica diciannovenne calabro-lucana, fu assunta con un contratto a tempo determinato come “comparsa per i Tg Rai”, insieme ad altri 69 colleghi, tutti scelti per interpretare il ruolo del politico di Destra sotto inesistente attacco di inesistente forza di opposizione.
L’artista del lamento divenne subito molto amata, arrivò a rappresentare il Governo nei talkshow televisivi di sei reti nazionali, piangendo a braccio per la censura subita. Fu promossa alla conduzione di un gameshow preserale di Rai2, “Son pacchi vostri”, e alla fine le offrirono Sanremo.
Non il festival, la città.

©Ale Ortica

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