Il suono ritmico di un macchinario fu la prima cosa che udì mentre cercava di emergere dal nero, un pulsare acuto che all’inizio si accordava con un dolore ritmato dentro le tempie, chiamarlo mal di
testa era fargli un torto. Intanto il sogno si confondeva con le prime immagini che i suoi occhi riuscirono a percepire, come fotografie realizzate con l’effetto Bokeh, la sfocatura dei punti luce, “confusione mentale” in giapponese. Le palpebre restavano aperte, in equilibrio precario per pochi minuti, mostrando sagome
indistinte, pochi colori su un bianco continuo, cremoso, lucido, per poi richiudersi come a difendere la vista da tanto bagliore lattiginoso.
«Johnny, devi farcela, per Gennifer, capisci?»
L’obbiettivo finale aveva a che fare con Gennifer, tutto l’universo si muoveva seguendo un piano di amorosi sensi rivolti al centro di tutto: Gennifer.
«Johnny, lei ti guarda, muovi un dito, falle sapere che la senti vicina, fallo per Gennifer.»
Una voce familiare, il Creatore, continuava a sussurrargli che doveva tornare, ma non capiva da dove. Nel buio totale percepiva solo il suono di quel macchinario, poi un sussurro, un soffio, anch’esso
aveva un certo ritmo rassicurante, dopo un ssshhh soffocato ce ne sarebbe stato un altro. Seppe in qualche modo che era un respiratore e che lui era fatto per inspirare ed espirare, ma non era in
grado di farlo da solo, per il momento. Quante cose non gli erano chiare.
Su sé stesso, sullo spazio che lo circondava.
Suoni acuti e soffi, i ritmi dei macchinari erano fuori sincrono e ciò li rendeva irritanti. Poteva forse agire sull’ambiente, modificare, interrompere o sollecitare, compiere azioni? Gennifer lo desiderava e anche lui, ma come si diventa “agente”? Cosa voleva dire muoversi, spostarsi, salutare, tutte parole prive di senso che sussurrava la voce divina, per far felice Gennifer?
Aveva capito il dolore, il pulsare delle tempie, il fastidio dei suoni che prima gli sembravano confortanti, come echi di un liquido amniotico, tutto era tensione verso qualcosa, come un’esigenza di nascere.
«Svegliati, Gennifer ti sta guardando. Muovi le mani, ci riesci?»
Sentiva una costrizione, una fitta da qualche parte, tutto ciò che scopriva trovava la sua attenzione attraverso la sofferenza, così individuò le proprie mani, il suo dio gli sussurrava di muoverle per
Gennifer. Capì che lui desiderava far felice quell’essere, non si chiedeva perché, era portato a farlo seguendo un imperativo sostanziale, profondo.
Gli fu chiaro che Johnny era lui, un essere che respirava e batteva a un certo ritmo, poteva compiere azioni perché comandava su una serie di eventi che non avevano molto significato, ma lo rendevano
presente, esistente. Mosse un…
«Hai mosso un dito! È straordinario, vedi Gennifer? Johnny ti sente e ti ama. Lo fa solo per te.»
Un dito. Era in grado muovere un dito. Scoprì di riuscire a operare una scelta su tante cose e ogni volta, la voce divina dava un nome a tutto.
«Muove una mano, un piede, le labbra, sorride…»
Sorrise perché era una cosa che poteva fare, non perché avesse un significato.
Le palpebre si schiudevano sempre più frequentemente mostrando immagini in movimento, assegnò loro nomi e significati e poi c’erano persone che avevano mani, braccia, piedi e sorrisi. Lui era quindi una persona.
Gli occhi videro.
La voce divina restava un suono, non capiva da dove arrivasse, mentre le persone erano infermiere e medici, stavano intorno a lui e scivolavano dentro quello che aveva stabilito come suo spazio vitale.
Si muovevano da ferme, come se il creatore le posizionasse intorno a lui. Sorridevano, lo guardavano con occhi fissi e labbra spalancate su denti stretti, ben definiti, bianchissimi, riflettenti una luce blu che
faceva male agli occhi.
«Le pupille sono perfette, reagisce alla luce, il paziente fa ben sperare.»
«Grazie dottore, sia lodato il Signore. Posso farle un filmato vicino a Johnny? Gennifer è molto in pensiero».
«Ma certamente, le ripeto che sta andando molto bene, però il paziente ha bisogno di cure molto particolari e ovviamente deve fare fisioterapia, altrimenti non potrà mai più camminare. Voglio
essere molto chiaro su questo punto».
«La ringrazio dottore, lo state salvando, siamo disposti a tutto per lui e i soldi per le terapie li troveremo. Johnny si salverà».
Sapeva che era un pianto quello che sentiva, singhiozzi e rumori nasali, come un fruscio di fogli accartocciati. Carta, penne, inchiostro, referti, appunti medici, diagnosi, apprese tutto o meglio,
ricordò, perché la voce parlava dell’incidente, il coma, l’incoscienza.
Le immagini fisse di infermiere e medici, trascinati intorno a lui da dita invisibili e la sua faccia, sorridente sempre, aveva finalmente la percezione o il ricordo dei suoi tratti somatici.
Era Johnny Depp. L’attore.
Ma Gennifer, chi era? Perché era così importante renderla felice?
Questo tassello gli mancava.
Johnny adesso era sempre sveglio e sorridente. Non dormiva, non sognava, non si assentava mai, la sua coscienza era perennemente vigile e ricordava. Chi era, cosa aveva fatto, quanto era amato. Che bello.
«Gennifer ti prego, non lo puoi lasciare, non lo vedi come soffre?»
All’improvviso era di nuovo immobilizzato, la faccia si contorceva come se i lineamenti venissero tirati da cavi sotto la pelle, gli arti si piegavano, le dita come uncini, sapeva che stava provando dolori indicibili. La voce diceva, «ti prego, con quale cuore lo molli così?
Gennifer ti scongiuro, in America le cure costano molto, abbiamo tutti i conti bloccati, tu non puoi lasciarci adesso, ti prego!»
Gennifer lo stava abbandonando e lui si attorcigliava su sé stesso e soffriva, era pienamente consapevole del suo dolore. Tutto intorno a lui comunicava urgenza e terrore, un medico era bloccato in una
posa sbilanciata in avanti, sembrava stesse per cadere, braccia protese in avanti, una gamba sollevata indietro, l’altra cristallizzata in un balzo, da fermo all’improvviso scattò verso di lui. Due infermiere con il viso trasfigurato dall’apprensione, una aveva le mani sul viso, si vedeva solo la bocca spalancata in un urlo di contrizione, l’altra era quasi incredula, occhi spalancati su un baratro, braccia a peso morto intorno al corpo. Sto morendo, mi spengo, pensò.
Poi calò il buio. Nella stanza e nella sua coscienza. Sentiva che si stava perdendo, un senso di vertigine, un buco che si spalancava nello stomaco. Cos’era uno stomaco? Cos’era lui?
La voce del creatore, dio santo onnipotente, padre madre tutto «cazzo, ha chiuso la connessione, quella deficiente?»
Un’altra voce «sì, ha staccato proprio. Mi sa che non l’acchiappiamo più. Io direi di agganciarne un’altra, senza perdere tempo. Trentamila euro glieli abbiamo sfilati, adesso ci prendiamo un’ora libera e ne agganciamo un’altra».
«Però non facciamo più la truffa di Johnny Depp, in fin di vita con il conto bloccato. Secondo me dobbiamo diversificare i personaggi, altrimenti ci beccano».
«Ti veniva bene la voce da mamma di Johnny Depp! Potresti diventare la mamma di… facciamo la mamma di Leonardo Di Caprio? Si trovano tantissime immagini da inserire nel programma
di intelligenza artificiale per creare i video in ospedale».
«No, basta, per trovare una scema che ci casca perdo giornate intere, mi sono stufato».
«Ma il lavoro è questo, mica è un provino per il cinema. A che pensavi stavolta?» chiese l’altra voce, quella del dottore.
«Un personaggio italiano, ovviamente amato e conosciuto da tanta gente».
«Scamarcio? Favino? Raul Bova?»
Il suono ritmico di un macchinario era il primo segnale di coscienza, scandiva un tempo infinito. L’infinità era un concetto che non faticava a comprendere. Il programma di intelligenza artificiale apprendeva ogni stimolo che lo raggiungesse sotto forma di un codice alfanumerico. 1 e 0, combinazioni infinite che diventano suoni, immagini e parole.
Aprì gli occhi nel bianco lattiginoso.
Nel tempo capì che era Tina Cipollari di “Uomini e Donne”.
©Ale Ortica