Amori di merda [25]

ZONA RIMOZIONE

Stanotte raccoglievo olive. Verdi, lucide, enormi olive. Sorridevo come non faccio da qualche tempo, e me ne portavo una alla bocca. Le olive sono aspre, le olive appena raccolte non sono buone. Quella invece era dolce, ne usciva un olio delizioso sul palato. Eppure qualcosa mi sfuggiva. Con me c’era un amico, non ricordo quale. Mi dava allegria la sua compagnia, gli amici sono così preziosi. Possibile che non capiscano, quanto sono preziosi. Ce ne sono alcuni che non rispondono ai messaggi, ai sorrisi e alle belle notizie. Quello no, era stupendo, dai modi potrei giurare fosse Martino. Ci guardavamo, un sorriso, un sospiro per i nostri innumerevoli guai, e poi una bella risata. Qualcosa mancava, ero felice ma non del tutto. Mentre sognavo, pensavo che bello, finalmente un sogno buono. Anche se manca qualcosa. E di quel sogno strano mi scervellavo a capire il significato, mi interrogavo a capirne il senso proprio mentre ero nel sonno. E mi rassicuravano le olive, la bella giornata – perché era una bella giornata di questo strano novembre – e il pensiero che volesse dire qualcosa di buono per me. Pensavo che al risveglio forse sarebbero giunte notizie buone. Magari riguardavano soldi. Quelli che ho messo via per mio figlio e che stranamente per un disguido tardano ad arrivare. Gli servono per l’università. La sua università. O forse la mia.
Ero una povera ragazza ricca. Disperata e allegra. La disperazione non la sentivo, si accumulava come in un granaio marcio, ma avevo tutta l’allegria della giovinezza da spendere. Il mio studio, era solo un passatempo con cui scacciavo la noia. Con cui rimandavo il mio destino nell’azienda. Eh, carina, no. Se vuoi soldi per il passatempo, devi lavorare. La mia permanenza a Siena si ridusse a un’unica notte per via della neve. Nicola non poteva ospitarmi – il suo appartamento era solo per uomini – e mi salvò Francesca. Che notte bellissima, che notte lucida di scivolate sulle discese dietro a Piazza del Campo. Mi guardo dietro le spalle. Poi guardo avanti. Un occhio al passato e uno al futuro: le cose non possono che migliorare. Questo è stato il mio modo di sopravvivere.
Se avessi una macchina del tempo credo che tornerei indietro, farei nascere mio figlio, e poi ancora indietro, scapperei con lui verso la luna, dove nessuno possa farci del male. Io e lui, piccoli come due fagioli, due embrioni così simili. Due omini buffi disegnati da Saint-Exupéry. Le famiglie, oddio cosa sono le famiglie. Tanto presenti, e assenti, e indifferenti. Io volevo solo essere riconosciuta. Solo che qualcuno mi dicesse che servivo a qualcosa. Una non inutile nascita.  E invece.
La suggestione del sogno mi è restata addosso tutto il giorno. C’era un dettaglio sbagliato. Ho spulciato i suoi significati. Il cognome del mio ultimo amante. I frutti. Eppure mancava qualcosa. Qualcosa che giustificasse la rabbia, la disperazione, la mancanza, il vuoto che sentivo.
Perché non si può essere felici in una bella giornata di sole con l’amico più caro, e le olive da raccogliere, e il sapore buono e dolce dell’olio sul palato, se nel sogno da qualche parte c’è anche il padre che ti ha abbandonato.

© Roberta Lepri, 2015

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1 commento

  1. Amicizia batte amore uno a zero! Continuate ad amarvi, amici, continuate! Racconto triste, ma dolcissimo, come l’oliva del sogno. Grazie, Roberta.

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