È appena salita e si è seduta di fronte, aprendo subito un libro dalla copertina scura. Ha i capelli di diverse tonalità di grigio, un po’ rigidi, striature bianche qua e là. Le stanno staccati dal viso, oscillando a ogni movimento con la sublime indifferenza che hanno i fili elettrici irrigiditi dall’anima di rame. Non le interessa piacere, o non si piace. Forse è già oltre, un capitolo chiuso.Vestita di nero, pantaloni e twin set, fori ai lobi ma niente orecchini. Occhialini ovali sottili, ben calcati, niente civetterie tipo in equilibrio sulla punta del naso. Occhi tra il marrone sottobosco e il verde marcio, che si muovono intenti sulle righe.
Quando la vettura si ferma alza la testa, lascia scorrere lo sguardo fuori, dal fragore grigionero al luccicare sfacciato delle piastrelle e dei manifesti pubblicitari che scivolano lentamente fino a fermarsi, nello sbuffo esasperato delle porte.Viso non bello ma interessante, intenso, poche rughe di espressione ai lati degli occhi e delle labbra piene, chiuse ma non strette.La mano corre a ricacciare indietro una ciocca ostinata che nelle scosse della carrozza continua a scendere sugli occhi.
Mentre siamo fermi la chiamano al cellulare, una vibrazione sommessa, in tono, niente polifoniche kitsch. Risponde senza trasporto, sbrigativa. Nel frastuono scuro della galleria che scivola oltre il finestrino rimette a posto il telefono e mi sfiora appena con lo sguardo, senza soffermarsi. Giurerei che vede la plastica del sedile attraverso la mia schiena.Lascia scorrere gli occhi distratti sulla rotaia lucida oltre il vetro. Riapre il libro dove aveva tenuto il segno con un dito. Legge McEwan in inglese, tenendo il libro in alto.
Belle mani, dita bianche e lunghe, un po’ ossute, l’azzurro tenue di una vena in rilievo. All’anulare porta quelle che sembrano due fedi d’oro, spesse, spiccano grandi sulla pelle chiara.
Vorrei dirle conosco la traduttrice, ma m’intimidiscono la ruga leggera sulla fronte, gli occhi concentrati che scorrono veloci avanti e indietro. Continuo a osservarla senza parere.Quando il convoglio riparte, si alza di colpo e mi volta le spalle. Un culo pieno e onesto riempie dignitosamente i pantaloni neri, si muove sotto i miei occhi a piccoli scatti trattenuti, come sapesse di essere osservato.
Dopo due passi si ferma di colpo e torna indietro. Mi scivola accanto senza toccarmi. Ha dimenticato sul sedile un ombrello tascabile a losanghe grigie e viola.Dice a fior di labbra un classico. Io la chiamo sfiorandole il braccio, con il signora che mi è uscito senza pensare. Le parole le butto fuori in fretta, prima che si volti e se ne vada per sempre.- Ci vuole coraggio, a non tingersi i capelli – dico, guardandola negli occhi. Si ferma solo un attimo e le sfugge un accenno di sorriso, labbra appena increspate e uno scintillio divertito negli occhi.
Già mezza voltata verso la porta, mentre la metro rallenta risponde qualcosa che non colgo.È scesa per prima, insinuandosi tra quelli in attesa di salire: una vecchina sorretta dal figlio obeso con l’aria scocciata e due ragazze con lo zainetto che ridacchiano avvicinando le teste. Arrivata alla scala mobile si volta appena, sembra cercarmi, ma distoglie subito lo sguardo. Con il naso spiaccicato sul vetro, vedo il grigio tenero della nuca ondeggiare e sparire sulle righe nere precise dei gradini che continuano implacabili a salire.Per un attimo mi vedo come in un film mélo, insinuarmi a forza nel singhiozzo pneumatico delle porte, precipitarmi fuori, scarmigliato, la cravatta lenta sul collo e gli occhi accesi, il mio Non andartene, ti amo! che la raggiunge tra le scapole contro il cielo grigiazzurro della piazza.
Senza scosse, nella luce stupida del neon, la metro inizia a muoversi. Ho aspettato troppo, come sempre, un altro ritratto per la mia galleria dei rimpianti: gozzaniano di complemento. Un’altra rosa che non colsi.
©Euro Carello, 2007