Il rumore del respiro imprigionato dentro le mani, giunte intorno al naso a formare una conca, sembrava una monaca in preghiera. Era rilassante quel suono basso e costante, la mente si schiariva, le
preoccupazioni si facevano nebbia ed evaporavano nella stanza.
Sul letto, la schiena curva e i gomiti sulle gambe nude, si rivolgeva al suo riflesso nello specchio appoggiato al muro e lo interrogava su come addolcire quelle gambe spigolose, i bei polpacci disegnati,
forse un po’ troppo pronunciati, anzi no, in definitiva erano perfetti.
Le ginocchia appuntite, che meraviglia, forse solo Carla Bruni le aveva così proporzionate. Due piccole vette sporgenti su una superficie levigata, di un bianco pulito, virgineo. Lo sapeva perché la
seguiva su Instagram, come pure tutte le super modelle e le attrici più glam.
Se lo raccontava come un gioco, quello di andare nei negozi e fantasticare su come sarebbe stato bello e confortevole indossare quel tubino, la camicetta di seta che sta bene solo se scivola come
un gel sulla pelle, neanche un grammo di pancetta sarà perdonato. E le calze, quelle vere, come si chiamano? Quelle che si reggono sulla coscia, mica la calzamaglia dei ballerini con la bisaccia ben in vista,
quelle horreur.
Un gioco innocente, una distrazione sul lavoro, accarezzarsi il ventre morbido fingendo di grattare un prurito e intanto visualizzare le proprie forme in un bel maglioncino soffice e nient’altro sotto.
Immaginarsi sopra tacchi altissimi, passi elastici, espressione innocente, quando sai benissimo che con quelle scarpe non ci saprai mai camminare, non come Miranda Kerr, non come Naomi che se
la chiamano pantera c’è un motivo, no?
Una serie di tonfi in lontananza sovrascrivevano i passi leggeri immaginati da Giò mentre si immedesimava in una Gisele Bündchen austera e spavalda come una valchiria, due tocchi di
nocca e la porta si aprì dissolvendo gli ultimi vapori di quelle immagini vezzose.
«Giò scusa, hai visto la Beretta? Sono terribilmente in ritardo e non ricordo più dove l’ho lasciata ieri sera. Ah, bella quella calza, hai visto che si sta rompendo? C’è un filo tirato, mi pare, fai attenzione ai bracciali.»
Andre si muoveva nella stanza cercando di non frapporsi tra Giò e l’immagine che stava fissando nello specchio, occhi persi, forse neanche lo aveva sentito entrare.
«Giò ma guarda che fa freddo, hai la pelle d’oca, ti passo un maglione?», rovistava sotto il letto «Giò, la Beretta, per favore…»
«Nel frigo»
«Non il salame, cribbio! La Beretta, L-A, la pistola. Voglio farla pulire da quello del centro commerciale, Capodanno è fra un mese e non posso portarmela in giro così, è pericoloso. E tu vestiti, fa freddo.»
«Non so cosa mettermi».
«Come no? Il solito completo grigio. Sveglia, si va a lavorare, sono già le 9.30.»
«E se mi mettessi quella?» disse indicando una gonna lunga, sobria, austera quasi, appoggiata sul letto vicino a una giacca abbinata con le spalline quadrate.
«Ma che hai la febbre? Finiscila e vestiti come si deve. Te lo dicevo che faceva freddo. Misurati la temperatura e copriti. Deficiente.»
«E io invece voglio mettermi quella» insistette indicando il completo che aveva preparato, ma ancora non si decideva a indossare.
«Trovata, stava ancora nella fondina della divisa nazi che ho usato ieri alla festa, che testa che ho. E tu vestiti, altrimenti io tra un quarto d’ora esco e non ti accompagno. Poi voglio vedere come fai
a prendere l’autobus con quella gonna. Vuoi dare spettacolo? Farti toccare il culo, magari? Alzati, imbecille.»
Giò non sapeva dire cosa avesse in testa quella mattina. Si sentiva bene, nessuna preoccupazione, stava veramente filando tutto a dovere. Il lavoro era la realizzazione di un sogno, tutto ciò che aveva sperato si era ormai concretizzato, eppure continuava a guardarsi allo specchio e a tormentarsi all’idea che quel giorno avrebbe desiderato indossare il completo con la gonna.
Andre si affacciò nuovamente, vestito, sbarbato e pronto per andare al lavoro «ancora lì in mutande? Ma allora devo preoccuparmi?»
Si sedette sul letto e allungò una mano per toccare la fronte di Giò, «non hai la febbre, ma che ti prende?»
«Voglio andare in ufficio con quel vestito oggi, mi fa sentire a mio agio, non vedo perché non possa farlo».
Andre sorrise divertito «ti sentivi a tuo agio anche ieri alla festa, col costume da pantegana, ma mica ci vai in ufficio con quello, no?»
«Intanto era Hello Kitty e non una pantegana, poi non capisco perché tu possa esprimere le tue spacconate in pubblico, mentre io dovrei reprimermi».
«Quali spacconate?»
«La pistola, ad esempio. Te la porti a spasso, ci fai giocare gli amici e quella è vera, un’arma che spara. Dimmi, che male può fare una gonna?»
Andre scattò in piedi come un pupazzo a molla e cominciò a strattonare il vestito «ma dici sul serio? Vuoi andare in giro con le gonnelline adesso? Senti deficiente, finché giochi a fare la super modella in casa a me non frega nulla, ma fuori da qui tu devi mantenere un’immagine decorosa, perché se ti sputtani tu, copri di merda pure me. Fai la persona seria, chiaro?». Sospirò con aria stanca e riprese il controllo di sé, «Giò, la pistola è un oggetto interessante, è un simbolo di potere, evoca immagini poderose, personaggi intrepidi, attori cazzuti, la gente la capisce una pistola».
«La gonna è un simbolo di eleganza e di bellezza, mica voglio andare in giro come una nigeriana da strada!»
«Tu non sei Cindy Crawford».
«E tu non sei Reinhard Heydrich».
Andre avrebbe sopportato molte altre provocazioni, o così amava pensare, ma quella frase lo colpì come un pizzico sui testicoli.
Amava indossare divise, le collezionava, diceva che era una passione da storico. Il testone del duce sulla scrivania era perfetto come fermacarte e se ne avesse trovato uno di Kevin Costner con lo
stesso peso, per lui sarebbe stato uguale, ma guarda caso non esisteva. I fucili appesi in una teca in cucina, collezionava anche quelli, perché erano belli e sicuramente più intriganti delle mucche
di ceramica che accumulava Giò e gli riempivano tutto il piano cottura. Ai raduni dei giovani del partito ci andava con la Beretta, è vero, ma solo per fare un po’ di scena. Si ballavano danze tirolesi col
braccio alzato, si scandiva il ritmo urlando ail ail ail ail ail che era divertente perché ricordava proprio una sonorità bolzanese. Ogni tanto si usciva in macchina a urlare contro le prostitute, ma quelle
non si offendevano, anzi, rispondevano con certi improperi che nessuno lo avrebbe biasimato se fosse sceso con la spranga che aveva sotto il sedile e avesse insegnato a quelle belve colorate un po’
di educazione. Ma queste erano tutte cose che la gente poteva capire, apprezzare perfino.
Quando quell’idiota di giornalista si era infiltrato nella sede dei Giovani Esploratori di Destra, tirando fuori un articolo del tutto fuorviante sui loro balli di gruppo, gli scherzi rivolti alle faccette d’orango e quei presta-soldi taccagni coi nasoni, che sarà mai, anche Giò li aveva difesi: chi fa la spia non è figlio di Maria. E anche in quella occasione, la gente aveva capito e trovato tutto normale. Mica era saltato il Governo, santo cielo!
Andre era un uomo normale e in quanto tale, sentendosi in preda a un attacco di giramento di palle, si avventò su quella faccia stupidita di Giò e cominciò a menare.
Alle 10.30 Andre e Giò varcarono l’entrata del palazzo romano nel quale lavoravano insieme. Entrambi indossavano giacca e pantaloni.
Entrambi salutarono gli addetti alla sicurezza con un sorriso di plastica.
Un uomo in divisa da poliziotto rispose al saluto distrattamente, si girò di spalle per riprendere una conversazione con un collega, si immobilizzò per qualche secondo e si girò velocemente verso la
coppia «scusate, signor Mastrodel…» Andre si fermò «mi dica».
Il poliziotto indicò Giò con un gesto rapido e incerto, pensando se fosse il caso di chiedere perché avesse un occhio tumefatto «tutto bene?»
Andre spintonò Giò con fare cameratesco «ma sì, tutto bene, c’è stato un fraintendimento con un uomo della mia scorta.»
Il poliziotto annuì «succede, spero nulla di grave, signor ministro Donzelletta.»
©Ale Ortica